Per anni è rimasto ai margini del grande racconto sulla fantascienza moderna, citato più per il suo insuccesso commerciale che per la sua ambizione artistica. Eppure, riguardandolo oggi, è difficile non pensare che tutti abbiamo frainteso questo film di fantascienza. Parliamo di The Fountain, diretto da Darren Aronofsky e uscito nel 2006, un’opera che ha pagato caro il suo rifiuto di semplificarsi, scegliendo invece una strada emotiva e simbolica che allora spiazzò pubblico e critica, ma che col tempo ha rivelato una profondità rara.
Il film intreccia tre linee narrative apparentemente distanti tra loro, ma legate da un unico nucleo tematico: l’amore di un uomo per una donna e l’impossibilità di accettare la morte. Hugh Jackman interpreta lo stesso personaggio in tre epoche diverse. Nel passato è un conquistador spagnolo che attraversa la giungla del Nuovo Mondo alla ricerca della mitica Fonte della Giovinezza, promessa di immortalità e salvezza. Nel presente è un medico brillante, ossessionato dalla possibilità di sconfiggere il cancro che sta uccidendo sua moglie, interpretata da Rachel Weisz. Nel futuro è un viaggiatore solitario che attraversa lo spazio all’interno di una bolla biologica, impegnato a mantenere in vita un albero misterioso, ultimo simbolo di speranza e continuità.
Queste tre storie non vanno lette come segmenti separati di un racconto tradizionale, ed è proprio qui che The Fountain è stato spesso frainteso. Aronofsky – che nel frattempo è impegnato sull’adattamento di un romanzo di Stephen King – non costruisce una fantascienza basata sulla logica causale o sulla spiegazione scientifica, ma su un linguaggio emotivo e visivo. Le epoche dialogano tra loro attraverso immagini ricorrenti, simboli e rime visive che suggeriscono connessioni più spirituali che narrative. L’albero della vita, la sfera, l’acqua, la luce dorata diventano elementi di un discorso che affonda le radici nel mito, nella Bibbia e nella filosofia, più che nella fantascienza classica.
Alla sua uscita, molti critici riconobbero la straordinaria potenza visiva del film, paragonandolo a opere come Blade Runner o 2001: Odissea nello spazio, ma ne contestarono la struttura, giudicata confusa, pesante o troppo astratta. In realtà, The Fountain chiede allo spettatore un coinvolgimento diverso, meno razionale e più emotivo. Il vero centro del film non è l’immortalità come traguardo, ma l’elaborazione del lutto e la difficoltà di accettare che l’amore non possa fermare la morte.
Riletto oggi, The Fountain appare come un film profondamente coerente nella sua ambizione, un’opera che usa la fantascienza come linguaggio per parlare di sentimenti universali e irrisolvibili. Non è un film facile, né vuole esserlo, ma è proprio questa sua resistenza a una lettura immediata ad averlo reso, nel tempo, uno degli esempi più audaci e personali di fantascienza emotiva del cinema contemporaneo.
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