La saga di John Wick è diventata in pochi anni un riferimento assoluto del cinema action moderno, grazie a una grammatica visiva che deve moltissimo all’impatto di film come The Raid, alla coreografia ravvicinata dei combattimenti e a un’idea di violenza dinamica, “trasparente”, sempre leggibile. Quel taglio, ormai riconoscibile anche per chi guarda distrattamente una scena con Keanu Reeves, viene spesso collegato soltanto al lavoro di Chad Stahelski e all’influenza del cinema asiatico contemporaneo. Eppure esiste un western molto precedente, quasi dimenticato dal grande pubblico, che ha lasciato un’impronta sorprendentemente forte sulla struttura narrativa e persino sul “mito” alla base di John Wick.
Quel film è Il cavaliere pallido (Pale Rider), western del 1985 diretto e interpretato da Clint Eastwood. Apparso in un periodo in cui il genere stava lentamente perdendo terreno, racconta la storia di un gruppo di cercatori d’oro minacciati da un magnate locale, finché l’arrivo di un predicatore enigmatico — noto semplicemente come “Preacher” — ribalta gli equilibri. Il film costruisce un personaggio che sembra muoversi tra la vita e la morte, con un passato oscuro, cicatrici, ferite che suggeriscono un’esistenza precedente da cui non si può davvero fuggire. È su questa figura, sulle sue motivazioni e sul modo in cui si inserisce nel racconto, che nasce il collegamento con John Wick.
Il punto d’incontro tra i due film è più evidente di quanto si possa pensare: tutto inizia con la morte di un cane. Ne Il cavaliere pallido il giovane personaggio di Megan Wheeler assiste all’uccisione del suo piccolo cane durante un attacco dei tirapiedi di LaHood. L’evento scatena in lei una richiesta di aiuto, una preghiera affinché qualcuno venga a salvarli. Ed è subito dopo che appare il Predicatore, come se fosse stato evocato da un trauma così profondo. In John Wick l’uccisione della cucciola Daisy non è soltanto un espediente narrativo: rappresenta la perdita definitiva dell’unico legame affettivo rimasto a Wick dopo la morte della moglie. È l’evento che spezza ogni equilibrio e rimette in moto un uomo che voleva scomparire. In entrambi i film la morte del cane è l’accensione della miccia che permette al protagonista di incarnare una forza di vendetta quasi sovrannaturale.
La somiglianza non finisce qui. Come John Wick, anche il Predicatore è percepito come una presenza leggendaria: cammina tra gli uomini con una precisione letale, sembra imbattibile e porta addosso i segni di un passato che nessuno riesce a decifrare fino in fondo. Le sue sparatorie sono rapide, chirurgiche, con un uso della pistola che anticipa quel senso di inevitabilità che circonda il Baba Yaga. Se Wick è temuto come una figura mitologica nel mondo degli assassini, il Predicatore appare come un angelo della morte che restituisce giustizia in un luogo senza legge.
È sorprendente notare come un western degli anni Ottanta abbia anticipato molte delle dinamiche narrative e simboliche che oggi associamo alla saga con Keanu Reeves. Dall’archetipo del pistolero che non può sfuggire al proprio passato alla costruzione di un mito basato su sussurri, racconti e leggende, Il cavaliere pallido ha tracciato un solco che John Wick ha ripreso e portato nel cinema contemporaneo. Un film spesso dimenticato, ma fondamentale per comprendere da dove arrivi davvero l’anima della saga che ha ridefinito l’action moderno.
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