Il professore Marco Terzi arriva a Palermo con l’idea di insegnare letteratura. Varcata la soglia del minorile “Malaspina”, scopre invece un mondo dove le parole non bastano: corridoi stretti, porte di ferro, una comunità giovane e già stanca. Mery per sempre non costruisce un racconto di “recupero” né una parabola edificante. È un film che interroga, uno dopo l’altro, i punti ciechi della società: dove finiscono i ragazzi che crescono senza scuola, lavoro, reti familiari? Chi li ascolta davvero?
Tratto dal romanzo-inchiesta di Aurelio Grimaldi, il film sceglie un realismo asciutto: Michele Placido è un adulto credibile ma fallibile; Claudio Amendola dà a Pietro una vulnerabilità senza sconti; Francesco Benigno scolpisce la leadership feroce di Natale; Alessandra Di Sanzo porta in campo Mery, identità dichiarata, fragile e orgogliosa. Intorno, molti non professionisti che non imitano il vero: lo sono. Ne esce un’immagine di Palermo lontana da cartoline e noir patinati, fatta di dialetto, corpi, angoli vivi.
Risi evita la scorciatoia dell’emozione facile. La regia è secca, antispettacolare: piani ravvicinati, spazi compressi, rumori che restano addosso. La violenza non è mai coreografia: è la grammatica di chi impara presto che comandare o subire sono spesso le uniche due posizioni disponibili. In questo clima arriva un gesto disarmante: il professore chiede ai ragazzi di scrivere un tema sull’amore. È una parola quasi proibita in un luogo addestrato alla durezza, e proprio per questo spalanca crepe, confessioni, rabbie.
Il film possiede un nucleo morale chiaro: l’ambiente conta. Non assolve, ma rifiuta il comodo tribunale del “buoni contro cattivi”. Mostra come l’assenza dello Stato e di opportunità reali consegni i più giovani a forme di potere alternativo – la mafia come ordine, linguaggio, appartenenza. Quando in classe esplode la frase «la mafia è bella, la mafia è giusta», la scena non è un comizio: è lo scontro tra una promessa di protezione e la realtà di una catena che si stringe.
Mery è il volto che resta. Non un simbolo costruito a tavolino, ma una persona che pretende il diritto di chiamarsi per nome. La sua presenza sposta l’asse del film fuori dai binari dell’epoca: niente macchiette, niente pietismo. Nella relazione con il professore – un bacio che non “salva”, ma riconosce – c’è la dichiarazione più netta: la dignità viene prima della definizione.
Mery per sempre ha aperto una strada nel nostro cinema tra fine anni ’80 e inizio ’90: chiamatelo neo-neorealismo, cinema civile o semplicemente realtà portata in scena. Risi recupera una tradizione e la rimette in circolo con volti nuovi, dialetti, periferie: non per estetizzare il margine, ma per restituirgli spazio. Il seguito, Ragazzi fuori, confermerà quanto quel grido avesse bisogno di altre voci; ma è qui che nasce l’onda lunga.
Riguardato oggi, il film conserva la sua forza perché non promette ciò che non può mantenere. Non trasforma l’inferno in percorso formativo, non assolve le istituzioni con un lieto fine di maniera. Sceglie la via più onesta: ascoltare. Ascoltare i racconti di chi è cresciuto sbagliando e di chi non ha avuto il tempo di scegliere. Ascoltare un professore che rimane quando molti se ne vanno. Ascoltare Mery che chiede solo di essere vista.
È un’opera che non consola ma responsabilizza. Ci ricorda che il confine tra “noi” e “gli altri” è più sottile di quanto vorremmo; che le biografie si scrivono con le occasioni, i legami, la qualità degli adulti che incontriamo. Per questo il film continua a parlare: perché racconta chi non ha un posto nel mondo e, senza gridare, ci chiede quale posto siamo disposti a costruire qui fuori.
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