Questo horror del 1973 non ha bisogno di mostri per farti tremare ed è ancora oggi tra i più affascinanti e disturbanti di sempre

Nel 1973 Robin Hardy realizza uno degli horror più singolari e affascinanti della storia del cinema: The Wicker Man. Lontano dai cliché del genere, il film britannico evita oscurità e mostri, scegliendo di spaventare a cielo aperto, sotto una luce quasi pastorale. È un orrore che nasce dalla bellezza, dal contrasto tra il calore dei colori e la freddezza morale dei suoi abitanti, tra la musica folk e il presagio costante della morte.

Il film si apre come un racconto d’indagine. Il sergente Neil Howie (Edward Woodward), un poliziotto inflessibile e profondamente religioso, raggiunge una piccola isola scozzese per indagare sulla scomparsa di una bambina. Ma ciò che trova non ha nulla di familiare: la comunità di Summerisle vive secondo riti pagani, celebra la fertilità e la natura con canti, danze e sacrifici simbolici. Gli abitanti, gentili e sorridenti, sembrano accoglierlo con curiosità, ma la loro ospitalità è solo una facciata. Ogni parola, ogni gesto, nasconde qualcosa. A guidarli è il carismatico Lord Summerisle, interpretato da Christopher Lee in uno dei ruoli più intensi e ambigui della sua carriera: un leader che incarna il fascino del potere spirituale portato oltre ogni limite razionale.

The Wicker Man è costruito come una trappola perfetta. Lo spettatore, come il protagonista, entra lentamente in un mondo dove nulla è davvero minaccioso, eppure tutto lo è. La regia di Hardy gioca con il contrasto tra luce e inquietudine: il sole è sempre alto, la natura rigogliosa, la musica leggera e ipnotica. Ma dietro ogni sorriso si percepisce il rumore sordo del sacrificio. Il film non usa il buio per spaventare, bensì la luce; non mostra il male, lo suggerisce. È un racconto sull’illusione del controllo, sulla religione che si trasforma in ossessione, sulla comunità che diventa setta.

La tensione cresce con lentezza, fino al celebre finale: una delle sequenze più iconiche e spaventose mai girate. Senza bisogno di effetti speciali o sangue, Hardy costruisce un momento di pura tragedia visiva e simbolica, un atto rituale in cui il terrore si mescola al canto corale. È un’immagine che rimane impressa come un marchio a fuoco, impossibile da dimenticare.

Ma la forza di The Wicker Man non si esaurisce nella sua costruzione narrativa. È un film che parla di fede e fanatismo, di razionalità e natura, di civiltà e barbarie, senza prendere posizione. Lo spettatore non sa mai con chi schierarsi: con il sergente Howie, simbolo di un ordine religioso rigido e moralista, o con gli abitanti dell’isola, che vivono in armonia con la terra ma sacrificano la vita umana in nome della fertilità. È in questa ambiguità che il film trova la sua grandezza, trasformando l’orrore in riflessione.

Con il passare dei decenni, The Wicker Man è diventato un punto di riferimento per il folk horror, influenzando registi contemporanei come Ari Aster (Midsommar) o Ben Wheatley (Kill List). Ma nessuno è riuscito a replicarne davvero l’equilibrio tra inquietudine e fascino, tra leggerezza e condanna. È un film che avvolge lo spettatore con un senso di disagio sottile, lo invita a lasciarsi andare, e poi lo brucia lentamente, proprio come la sua immagine finale.

Cinquant’anni dopo, The Wicker Man rimane un’esperienza irripetibile: un orrore che non nasce dal buio, ma dalla luce; una fiaba per adulti che parla di sacrificio, fede e potere. Un film che, come un rito antico, continua a esercitare il suo incantesimo ogni volta che qualcuno osa varcare la soglia dell’isola di Summerisle.

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