Nel 2005, nel pieno dell’ondata di horror americani sempre più spettacolari e artificiosi, dall’Australia arrivò un film che non sembrava voler intrattenere, ma traumatizzare. Si chiamava Wolf Creek, e dietro la sua apparenza da piccolo slasher indipendente nascondeva un’esperienza brutale e disturbante, capace di ridefinire l’idea stessa di orrore realistico. A distanza di vent’anni, quel film è ricordato come uno dei più inquietanti della sua epoca – ma pochi sanno che ha dato vita anche a una delle migliori serie neo-western degli ultimi anni, un’evoluzione tanto inaspettata quanto riuscita.
Scritto e diretto da Greg McLean, il film prende spunto da casi reali di cronaca nera per raccontare la discesa all’inferno di tre giovani turisti nella sconfinata solitudine dell’Outback australiano. Il loro incubo ha un nome e un volto: Mick Taylor, un cacciatore apparentemente bonario che si rivela un mostro senza rimorsi. Interpretato da John Jarratt con una ferocia quasi documentaristica, Mick è diventato uno dei serial killer più realistici e spaventosi del cinema moderno — un uomo qualunque capace di scatenare un orrore che sembra possibile, persino probabile.
Girato con un budget ridotto e un’impostazione semi-documentaristica, Wolf Creek si distingueva per la sua crudezza: niente musica rassicurante, nessuna ironia da “slasher” anni ’80. Solo desolazione, dolore e un senso di impotenza che ricordava più Non aprite quella porta che le saghe commerciali dell’epoca. La critica si divise, ma il pubblico lo trasformò in un cult mondiale, e Mick Taylor in una leggenda dell’horror australiano.
Nel 2016, più di dieci anni dopo il film originale, Wolf Creek è tornato in forma di serie televisiva. E qui è avvenuta la metamorfosi: da semplice storia di sopravvivenza a thriller psicologico e western contemporaneo, capace di esplorare i confini morali e fisici dell’Outback.
La prima stagione racconta la storia di Eve Thorogood (Lucy Fry), un’americana in vacanza in Australia la cui famiglia viene sterminata da Mick. Sopravvissuta per miracolo, Eve decide di restare e trasformare il proprio dolore in vendetta. È un percorso che fonde il linguaggio del western con quello del noir: Eve attraversa lande deserte, incontra figure ambigue, sfida la legge e sé stessa. Il suo viaggio non è solo una caccia all’uomo, ma una lenta discesa nella follia e nel trauma, dove la frontiera australiana diventa simbolo di un mondo senza regole, popolato da spettri del passato.
Con la serie, Wolf Creek ha compiuto un salto di qualità che pochi franchise horror possono vantare. L’estetica cruda e polverosa richiama il western moderno di Taylor Sheridan (Yellowstone, Sicario), mentre la struttura investigativa e il senso di ineluttabilità ricordano il primo True Detective. Il male non è più solo il volto di Mick Taylor: è la terra stessa, arida e immobile, che inghiotte chiunque osi sfidarla.
La seconda stagione cambia tono, tornando al survival puro: Mick rapisce un intero gruppo di turisti e li costringe a lottare per la sopravvivenza. Ma è nella prima stagione che la serie trova la sua anima più profonda e inquieta. Lì Wolf Creek smette di essere un horror e diventa un racconto sul dolore, sulla vendetta e sulla perdita dell’innocenza — una parabola western ambientata nel deserto australiano, dove la violenza non ha più giustificazioni né limiti.
A due decenni dalla sua uscita, Wolf Creek resta una delle opere più potenti mai nate dall’horror indipendente. È la prova che anche un piccolo film può generare un universo narrativo complesso, capace di contaminare generi e linguaggi. Dal cinema alla televisione, Greg McLean ha costruito un mondo in cui la paura è un’esperienza fisica e spirituale, e in cui la vendetta diventa una forma di sopravvivenza.
In un’epoca in cui l’horror tende sempre più verso il metaforico, Wolf Creek rimane fedele alla sua natura primordiale: un viaggio nel buio della psiche e della terra, dove la frontiera non è più un luogo da conquistare, ma un abisso da cui nessuno torna davvero.
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