Le classifiche dedicate ai migliori film sulla Seconda guerra mondiale tendono a premiare sempre gli stessi titoli: racconti di eroismo, missioni impossibili andate a buon fine, sopravvissuti che ce l’hanno fatta contro ogni probabilità. In mezzo a questi classici, però, esiste un film che sceglie una strada diversa, più scomoda, e proprio per questo rimane ancora oggi uno dei vertici del genere, nonostante sia stato in parte dimenticato. Parliamo di Quell’ultimo ponte, uscito nel 1977 e diretto da Richard Attenborough: un kolossal bellico che, a 47 anni di distanza, continua a impressionare per ambizione, realismo e radicalità nel raccontare una disfatta invece di una vittoria.
Tratto dal libro di Cornelius Ryan, il film ricostruisce l’Operazione Market Garden, il piano alleato che nel settembre 1944 punta a porre fine alla guerra con un colpo audacissimo: conquistare una serie di ponti nei Paesi Bassi occupati dai nazisti, lanciando la più grande operazione aviotrasportata della storia. Circa 35.000 paracadutisti vengono sganciati dietro le linee nemiche, con l’obiettivo di aprire una via rapida verso la Germania. Il cinema di guerra è pieno di missioni disperate concluse in extremis con un trionfo; qui, invece, vediamo un’operazione studiata a tavolino dai generali con un ottimismo cieco, che si schianta contro la realtà sul campo. La sceneggiatura di William Goldman mette a nudo proprio questo scarto: la sicurezza dei vertici militari, guidati dal generale Montgomery, che ignorano i segnali di allarme e sottovalutano il nemico, e i soldati che pagano il prezzo delle decisioni prese troppo in alto.
Quell’ultimo ponte abbraccia la dimensione corale della guerra, raccontando l’operazione attraverso tre grandi punti di vista: i paracadutisti alleati britannici, americani, olandesi e polacchi; i civili olandesi travolti dai combattimenti; i soldati tedeschi chiamati a difendere il territorio. Non ci sono eroi solitari a dominare il campo, ma una galassia di personaggi che combattono piccole guerre individuali all’interno di un gigantesco fallimento collettivo. Anche figure chiave come Montgomery restano fuori scena, quasi a sottolineare quanto le decisioni che cambiano il corso della storia vengano prese lontano da chi poi rischia la vita.
A dare corpo a questa visione c’è un cast che oggi sembra impossibile anche solo da immaginare: Sean Connery, Michael Caine, Robert Redford, Anthony Hopkins, Gene Hackman, Dirk Bogarde, James Caan e molti altri, distribuiti in ruoli più o meno ampi che restituiscono la sensazione di un mosaico umano vastissimo. Attenborough non usa queste star come semplici comparsate di lusso, ma come tasselli di un quadro che mostra la guerra in ogni sua sfumatura: dai comandanti che difendono testardamente il piano ai soldati che cercano solo di sopravvivere, fino ai civili costretti a trasformare le proprie case in postazioni militari. Indimenticabile la scena della donna che si vede occupare la casa da un reparto alleato, con un soldato che le dice: “Mi dispiace tanto, ma temo che dovremo occupare la sua abitazione”. In poche battute, il film ricorda che ogni mossa strategica si traduce in un’invasione concreta degli spazi e delle vite di chi la guerra non l’ha scelta.
Girato in gran parte nei Paesi Bassi, Quell’ultimo ponte punta a un realismo quasi ossessivo: i tedeschi parlano tedesco, gli olandesi parlano olandese, americani e britannici sono distinti anche da accenti e inflessioni. Attenborough riempie il cielo di aerei veri e di migliaia di paracadute che si aprono, affidandosi a stuntman e paracadutisti reali invece che a trucchi digitali. Le sequenze di battaglia, pur portando addosso qualche segno del tempo negli effetti, restano di una potenza visiva notevole: la macchina da presa si muove tra esplosioni, ponti contesi, corpi a terra, restituendo l’idea di un’operazione talmente vasta da sfuggire al controllo di chiunque. Non è un caso se, all’epoca, in alcuni Paesi il film viene tagliato per la durezza di certe immagini.
Spesso accostato a Dunkirk di Christopher Nolan per la scelta di evitare un protagonista assoluto e privilegiare una narrazione distribuita, il film di Attenborough compie però un’operazione diversa. Laddove Dunkirk condensa il racconto in un’esperienza tesa e compatta, Quell’ultimo ponte abbraccia una durata vicina alle tre ore per restituire l’epicità di un fallimento su larga scala. È una scelta che richiede pazienza, e che all’uscita viene interpretata da molti come un difetto: il film viene accusato di essere troppo lungo, troppo frammentato, troppo poco “emozionante” nel senso tradizionale del cinema bellico. Ma è proprio in questa struttura “anti-eroica”, quasi da docu-fiction, che sta la sua forza: non c’è catarsi facile, non c’è vittoria consolatoria, solo la consapevolezza di quanto una guerra possa essere governata da errori, arroganza e sottovalutazioni.
Se non ha mai raggiunto la popolarità trasversale di titoli come Salvate il soldato Ryan, oggi Quell’ultimo ponte appare come il complemento perfetto dei grandi classici sul conflitto mondiale: dove altri film scelgono il punto di vista della missione riuscita, Attenborough racconta con la stessa cura un’operazione nata per essere troppo ambiziosa e destinata a fallire. Non glorifica la guerra, non la rende spettacolo privo di conseguenze: ne mostra la confusione, l’inefficienza, il costo umano sia per i soldati sia per i civili. Proprio per questo, a 47 anni dall’uscita, questo “film troppo lungo” per alcuni, “film troppo sincero” per altri, resta uno dei migliori esempi di cinema bellico mai realizzati, in attesa solo di essere riscoperto.

