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Quando uscì venne frainteso da tutti. Ma questo film italiano ha riscritto la storia della regia moderna

Quando uscì venne frainteso da tutti. Ma questo film italiano ha riscritto la storia della regia moderna

Alla sua uscita nel 1970 Il conformista fu accolto con una certa diffidenza: c’era chi lo considerava un esercizio di stile abbagliante e chi lo bollava come un film “troppo elegante” per raccontare la brutalità del fascismo. In realtà, a distanza di decenni e grazie anche alle copie restaurate che ne hanno restituito il fulgore visivo, è evidente che il film di Bernardo Bertolucci ha riscritto le regole della messinscena moderna. Non ha semplicemente illustrato un romanzo di Alberto Moravia: ha trasformato la forma stessa del cinema in pensiero, facendo della luce, dell’architettura e del montaggio il lessico attraverso cui leggere la psicologia di un uomo e la malattia di un’epoca.

Il protagonista, Marcello Clerici (un Jean-Louis Trintignant di stupefacente concisione emotiva), è un borghese che aspira alla normalità come a un rifugio morale. «Voglio essere un uomo normale», dice, e in quella formula apparentemente innocua si consuma l’intera tragedia: per sembrare normale, per confondersi nella folla, Marcello sceglie il fascismo come habitat, una moglie come arredamento, una missione politica come rito di passaggio. L’incarico che accetta – aiutare a eliminare il suo ex professore Luca Quadri, intellettuale antifascista rifugiato a Parigi – non è solo atto di lealtà al regime, è soprattutto la prova con cui convincersi di esistere, di essere finalmente uguale agli altri. Bertolucci, seguendo Moravia ma allargando il perimetro del racconto, intreccia Marx e Freud: la storia pubblica e le rimozioni private camminano insieme, l’ideologia diventa un modo socialmente accettabile per disciplinare il desiderio e cancellare le fratture dell’infanzia.

Il film non procede per linearità, ma per scarti di memoria, lampi, sovrapposizioni. È il montaggio di Franco Arcalli a dare quel respiro intermittente che trasforma ogni inquadratura in un frammento di coscienza. Bertolucci lo racconterà con gratitudine: in sala di montaggio ha scoperto l’improvvisazione, l’arte di accostare piani nati per stare altrove e, così facendo, far emergere sensi nascosti. Il presente della storia – una luna di miele parigina che è in realtà l’attesa di una telefonata d’ordine – si apre continuamente a flashback che riportano ai traumi del passato e ai compromessi del presente: il racconto si spezza e insieme si ricompone, come la mente di Marcello, sempre sul punto di cedere.

Se il montaggio è la grammatica profonda, la sintassi visiva è tutta nel dialogo tra spazi e corpi. La Roma dell’EUR, con i suoi volumi geometrici e inumani, schiaccia i personaggi dentro un ordine monumentale che li riduce a pedine; la Gare d’Orsay e i boulevard parigini, al contrario, aprono varchi di respiro, salvo richiuderli quando la missione reclama obbedienza. Vittorio Storaro scolpisce la luce come se fosse materia drammaturgica: la coscienza è un raggio che attraversa l’ombra, l’inconscio è una penombra che inghiotte, il volto di Trintignant diventa una superficie su cui la luce scrive e cancella. Tutto il film è una variazione su questo alfabeto, e il celebre incontro tra Marcello e Quadri, costruito come una dimostrazione del mito della caverna di Platone, rende esplicita l’allegoria: chi resta incatenato alle ombre scambia i riflessi per realtà. «In Italia vedete solo ombre», dice il professore. Bertolucci non illustra un concetto: lo mette in scena chiudendo imposte, scavando nel buio, forzando l’occhio dello spettatore a dubitare di ciò che vede.

Ci sono sequenze che, più di altre, raccontano perché Il conformista sia diventato un film-scuola. Il ballo parigino è un vortice che seduce e intrappola: Dominique Sanda e Stefania Sandrelli si prendono il centro della sala e, mentre la musica stringe, l’inquadratura trasforma l’euforia in assedio; Marcello, al cuore della pista, scopre di non poter più arretrare. L’agguato nel bosco è un’opera senza arie, tutta movimenti e respiri: la macchina da presa non registra, dirige; gli alberi sono quinte che si richiudono, il vento è un suggeritore invisibile che spinge all’inevitabile. Qui la regia non accompagna l’azione, la determina.

Gli attori reggono ogni rischio. Trintignant interpreta l’opacità come densità: quel volto immobile non è un vuoto, è una diga. La Giulia di Sandrelli, frizzante, ingenua e opportunista, è la scorciatoia comoda del conformismo, l’“arredamento” familiare che promette riparo. Anna, come la inventa Sanda, è il contrario: ambigua, magnetica, pericolosa, è la tentazione di un’altra vita, un altrove che chiama e che Marcello non saprà mai davvero raggiungere. Intorno, Manganiello è il promemoria del dovere: non ha il peso ideologico del “grande inquisitore”, ma l’efficacia burocratica di chi ricorda l’ora e il luogo del delitto.

Il film nacque in un momento in cui la critica oscillava fra il sospetto e l’adorazione. C’era chi vedeva nel retroterra psicoanalitico un’idea semplificata del fascismo come fuga dalla propria identità e chi rimproverava a Bertolucci la bellezza “troppo bella” di ogni inquadratura. Col senno di poi, proprio quella bellezza è la chiave: non è decorazione, è politica della forma. L’architettura del regime dice il regime, la luce racconta la cecità, il montaggio mappa le fratture. E mentre l’Europa di oggi torna a confrontarsi con pulsioni autoritarie, Il conformista continua a parlare perché mette a nudo il meccanismo elementare della violenza: il bisogno di essere come gli altri, di rinunciare a sé per non essere visti. La normalità come alibi.

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