Predator, è tempo di rivalutare il capitolo più odiato dellintera saga

Il franchise di Predator è sempre stato una creatura mutevole che nel corso degli anni ha generato film d’azione, thriller polizieschi, a anche antologie animate come nel recentissimo Killer of Killers. Eppure, tra tutte le varie iterazioni della saga, c’è un capitolo che ancora oggi continua a essere bersaglio delle critiche e sul quale pende l’accusa di aver quasi dato il colpo di grazia al franchise.

Parliamo ovviamente di The Predator, il film del 2018 scritto e diretto da Shane Black che avrebbe dovuto rilanciare il franchise, ma che finì invece per essere massacrato dalla critica, ignorato dal pubblico e messo la parola fine alla caccia degli Yautja su schermo.. almeno fino a quando Dan Trachtenberg non bussò alla porta dei 20th Century Studios con la sua proposta, aprendo la strada al celebratissimo Prey.

Ora che nei cinema è sbarcato Predator: Badlands, potrebbe tuttavia essere arrivato il momento di riguardare a The Predator con occhi nuovi. Si tratta senza dubbio di un film caotico, imperfetto, e persino improbabile in alcuni suoi passaggi, ma anche spassoso, selvaggio e sorprendentemente sincero nella sua follia. Come se non bastasse, riesce ad essere al tempo stesso il film più “gore” della saga e quello con la più spiccata verve comedy. Una dicotomia che alla sua uscita non fu apprezzata dai più, e che emergeva già dalla sinossi ufficiale del film, la quale recitava:

Dai confini estremi dello spazio, alle strade cittadine dei sobborghi, la caccia arriva fin dentro casa, nella rivoluzionaria reinterpretazione della serie Predator, ad opera di Shane Black. Ora, i cacciatori più letali dell’universo sono più forti, più intelligenti e mortali che mai, essendosi geneticamente potenziati con il DNA di altre specie. Quando un ragazzino innesca accidentalmente il loro ritorno sulla Terra, solo una squadra di ex soldati e una insegnante di scienze insoddisfatta possono impedire la fine della razza umana.

Uno dei motivi per cui The Predator è stato stroncato riguarda proprio il suo tono. Dopo otto anni di pausa da Predators (2010), molti fan si aspettavano un ritorno al classico tono cupo e marziale del capostipite del 1987, con Shane Black che ha invece privilegiato un tono più scanzonato e avventuroso. Per comprendere al meglio questa scelta del papà di Arma Letale, è tuttavia necessario un paio di considerazioni. Nonostante la campagna marketing l’abbia venduto come un “ritorno alle origini” della saga – sfruttando il fatto che Black fosse sia nel cast sia tra gli sceneggiatori non accreditati del film originale con Arnold Schwarzenegger – il film sembra essere più figlio della sensibilità che spinse Black a scrivere Scuola di Mostri, cult anch’esso del 1987 che ha riletto i mostri classici della Universal in chiave irriverente e adolescenziale.

Tra le critiche più feroci rivolte al film c’è inoltre la rappresentazione dell’autismo del giovane Rory McKenna (Jacob Tremblay), figlio del protagonista QuinnMcKenna trattato come un tratto genetico “speciale” che gli Yautja vogliono studiare per potenziare la loro specie. Al netto della bontà o meno dell’idea, questa affonda le sue radici nei lati più intimi di Shane Black.

Durante le riprese, a Black è stata infatti diagnosticata la sindrome di Tourette, fattore che in fase di scrittura l’avrebbe spinto a “donarla” a un personaggio chiave del film al fine di sdrammatizzarne le implicazioni. L’arco narrativo dedicato a Rory sembra quindi riflettere il tentativo del regista di elaborare il tema dell’essere definiti da una condizione neurologica. Visto da questa angolazione, il film tenta – forse in modo goffo, ma in modo ingenuamente sincero – di affrontare il discorso parlando di inclusione e identità.

Detto delle intenzioni di Shane Black nella sua realizzazione, non è un mistero che The Predator sia stato afflitto da molteplici riprese aggiuntive e vari rimaneggiamenti. Aspetto che, trapelato ben prima della sua uscita, ha contribuito a creare attorno al film un’aura tossica, amplificata da un montaggio non sempre elegante, e che crolla definitivamente proprio nel finale.

La scena conclusiva del film – totalmente fuori tono – è stata infatti imposta dallo studio dopo una serie di proiezioni di prova. Si tratta in sostanza di una sorta di teaser per un ipotetico sequel mai realizzato che esula completamente dal contesto della trama svoltasi fino a quel momento, seppur introducendo la controversa (e al tempo stesso fighissima) “Predator Killer Suit”, l’arma che lo Yautja fuggitivo voleva donare al genere umano.

Ridurre tutto il film a questa ultima scena sarebbe tuttavia ingiusto. Alla luce dell’enorme successo degli ultimi film firmati da Dan Trachtenberg – i quali hanno riportato il franchise su un territorio più spartano e primordiale – The Predator merita di essere visto e rivalutato con uno spirito diverso e di essere apprezzato per ciò che è: un action-comedy mostruosamente esagerato, pieno di idee folli, difetti macroscopici ma anche tanto cuore (e violenza).

Insomma, forse non è il Predator che pensavamo di desiderare all’epoca, nè quello che vorremmo vedere oggi, ma potrebbe essere molto più divertente e verace di quanto ricordiate.

Cosa ne pensate? Fatecelo sapere nei commenti!

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Foto: MovieStillsDB

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