In un periodo in cui l’horror sembra vivere una nuova età dell’oro — tra sequel, reboot e rifacimenti di ogni genere — un piccolo film del 2020 ha dimostrato che l’originalità può ancora fare paura. Si intitola Scare Me, è diretto e interpretato da Josh Ruben, e ha avuto la sfortuna di passare quasi inosservato al momento della sua uscita. Eppure, è una delle opere più intelligenti, spiazzanti e autoironiche che il genere abbia prodotto negli ultimi anni.
Scare Me non punta sull’orrore tradizionale fatto di mostri, sangue e urla, ma sull’idea stessa di raccontare la paura. Ruben, noto anche per il recente Heart Eyes, realizza un film che smonta il linguaggio dell’horror e lo ricompone in chiave teatrale, minimale e sorprendentemente comica. È un meta-horror sul potere dell’immaginazione, un gioco di scrittura e improvvisazione che riesce a catturare lo spettatore con pochissimi elementi: due attori, una baita isolata e un blackout.
La storia è quella di Fred (interpretato dallo stesso Ruben), un aspirante sceneggiatore che si ritira in montagna per scrivere il suo prossimo film. Dopo una giornata di blocco creativo e frustrazione, incontra Fanny (interpretata da una straordinaria Aya Cash), un’autrice di successo specializzata in romanzi horror. Quando la corrente salta, i due si rifugiano nella stessa casa e decidono di passare la notte raccontandosi storie spaventose. Ma c’è un patto: non basta narrarle, bisogna anche metterle in scena.
Da quel momento, il film diventa un campo di battaglia creativo. Tra voci, gesti, imitazioni e improvvisazioni, Fred e Fanny danno vita a un duello verbale e fisico che alterna risate e inquietudine, ironia e disagio. Ogni storia è una variazione sui cliché del genere — zombie, licantropi, possessioni — ma sempre raccontata in modo inaspettato. Ruben e Cash trasformano il salotto di una baita in un palcoscenico di pura immaginazione, dove la paura nasce non da ciò che si vede, ma da ciò che si evoca.
Il film riesce a fare molto con pochissimo. Non ci sono effetti speciali, ma la regia intelligente e dinamica di Ruben sfrutta al massimo i silenzi, la luce e i suoni prodotti dagli stessi personaggi, rendendo ogni scena viva e imprevedibile. La fotografia calda e claustrofobica accompagna i momenti di tensione, mentre il montaggio accentua il ritmo serrato delle improvvisazioni. Quando entra in scena Chris Redd nei panni di un fattorino incredulo, la situazione tocca vette di comicità surreale che ricordano Get Out o What We Do in the Shadows.
Ma Scare Me non è solo una commedia horror: è anche una riflessione sul processo creativo e sul rapporto tra autore e pubblico. Ruben usa il dialogo fra i due protagonisti per parlare di ego, ispirazione e ansia da fallimento, trasformando la paura in una metafora dell’atto stesso di scrivere. È un film che diverte, inquieta e allo stesso tempo interroga: perché ci piace raccontare l’orrore? E cosa succede quando la finzione diventa più reale delle nostre intenzioni?
Con il suo mix di tensione psicologica e ironia metacinematografica, Scare Me è un esperimento riuscito e una dichiarazione d’amore verso il genere horror e chi lo crea. È un film che si regge sulla forza dei suoi interpreti e sull’idea che la paura — quella vera — non ha bisogno di grandi budget, ma solo di immaginazione, ritmo e un pizzico di follia.
Distribuito sulla piattaforma Shudder, Scare Me è rimasto per troppo tempo nell’ombra. Ma a distanza di qualche anno, merita di essere (ri)scoperto: non solo perché è un horror diverso da tutti gli altri, ma perché ci ricorda che la paura, se raccontata con intelligenza, può ancora sorprenderci.
Fonte: Collider
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