Sono passati più di sessant’anni dalla sua uscita, ma Kwaidan del regista giapponese Masaki Kobayashi continua ancora a essere citato tra i più grandi film horror della storia del cinema non solo nipponico, ma mondiale. Nominato all’Oscar come Miglior film straniero e premiato a Cannes con il Premio speciale della giuria, ha ancora oggi una profonda influenza sul suo genere narrativo, e continua a rappresentare un’esperienza profonda e disturbante, nonostante sia lontanissima dai canoni dell’horror moderno fatto spesso di jumpscare, violenza e ritmo serrato.
La narrazione di Kwaidan (che in giapponese significa “storie di fantasmi” o “storie soprannaturali”) è frammentata in quattro episodi non collegati tra di loro, se non per la voce narrante che fa da filo conduttore. Il primo, Kurokami, racconta la storia di un giovane samurai che abbandona la moglie per prendere servizio presso il signore di una lontana provincia, dove cerca di scalare i ranghi della società. Nel secondo – considerato generalmente il segmento migliore – due boscaioli incontrano una Yuki-onna, uno spirito delle nevi appartenente al folklore giapponese. La donna uccide uno di loro e promette di risparmiare l’altro, a patto che non faccia mai menzione dell’incontro. Il terzo episodio vede protagonista un musicista cieco, Hoichi, che si ritrova a suonare di fronte ai fantasmi dell’imperatore e dei suoi samurai. Infine, il segmento finale racconta di uno scrittore che si cimenta nella lettura di una leggenda così inquietante da diventare realtà intorno a lui.
Come molte opere giapponesi, anche l’horror di Kobayashi affonda le sue radici nel folklore e nella tradizione letteraria, ispirandosi in particolare agli scritti di Lafcadio Hearn, che nel diciannovesimo secolo raccolse e rielaborò una serie di leggende del luogo. In questi racconti, l’elemento soprannaturale emerge con un tocco tipicamente giapponese: al contrario delle storie dell’orrore occidentali, in cui spiriti e fantasmi tendono a comparire all’improvviso per spaventare di colpo il malcapitato di turno con immagini vivide e grottesche, in quelle orientali spesso l’occulto è subdolo e silenzioso, striscia sottopelle, convive per molti anni fianco a fianco con l’essere umano aspettando solo il momento giusto per rivelarsi e colpire. Kwaidan è quindi un film di attesa, suspense e foreshadowing: sono proprio questi gli elementi che, piano piano, insinuano nello spettatore il terrore di trovarsi davanti a qualcosa di orribilmente spaventoso. L’horror nasce dunque dall’atmosfera, e non dallo shock.
Non si può, poi, non citare l’aspetto estetico, che contribuisce in maniera cruciale al fascino dei quattro racconti. Il regista ha trasformato ogni inquadratura in un dipinto tradizionale giapponese, creando idealmente un ponte tra la tradizione del teatro Nō e Kabuki e il cinema moderno, con fondali dipinti, luci irreali e colori espressivi. Il risultato è maestoso, ma anche ipnotico e alienante. Lo stile è simbolico ed espressionista e pone una particolare attenzione all’uso del colore, aspetto che è stato poi ereditato dai J-horror più moderni. I suoni e la colonna sonora sono minimalisti, spesso distorti e perennemente presenti. L’unione di sonoro e visivo dà così l’illusione allo spettatore di trovarsi dentro una favola macabra.
Infine, anche a distanza di tanti anni, le tematiche affrontate non sono invecchiate di una virgola: il tradimento, la corruzione, il compromesso morale sono al centro di tutti e quattro i racconti, che presentano di volta in volta dei personaggi costretti ad affrontare le conseguenze delle proprie scelte e dei propri errori. Ciò che rende Kwaidan ancora così efficace è la capacità di mettere anche lo spettatore di fronte alle proprie responsabilità, facendogli rimanere addosso il terrore e l’ansia di questo horror elegante e contemplativo.
Fonte: Collider
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