A distanza di quasi trent’anni, una battuta pronunciata in un film di fine anni Novanta continua a essere ricordata come una delle più disturbanti mai sentite nel cinema di fantascienza. Una frase capace di condensare in poche parole la paura dell’ignoto, l’idea di un orrore che va oltre la comprensione umana e la sensazione che, una volta varcata una certa soglia, non esistano più punti di riferimento. All’epoca passò quasi inosservata dal grande pubblico, ma col tempo è diventata il simbolo di un’opera riscoperta e rivalutata come uno degli esempi più estremi di fusione tra sci-fi e horror.
Uscito nel 1997, Event Horizon è il film che ha dato forma definitiva a quella frase diventata iconica. Diretto da Paul W.S. Anderson, il lungometraggio racconta una missione di recupero nello spazio profondo, dove la razionalità scientifica si scontra con qualcosa di radicalmente altro. La storia segue l’equipaggio della Lewis and Clark, inviato nei pressi di Nettuno per rintracciare una nave sperimentale scomparsa misteriosamente anni prima durante il suo primo viaggio.
Il vascello perduto, la Event Horizon, era dotato di un motore rivoluzionario in grado di piegare lo spazio-tempo attraverso un wormhole. A progettarlo è stato il dottor William Weir, interpretato da Sam Neill, che si unisce alla spedizione guidata dal capitano Miller, a cui presta il volto Laurence Fishburne. Una volta raggiunta la nave, l’equipaggio scopre un interno devastato, i resti del precedente equipaggio e una registrazione audio fatta di urla, suoni distorti e frasi in latino, primo segnale di un orrore che non può essere spiegato con la sola scienza.
Man mano che l’esplorazione prosegue, i membri della Lewis and Clark iniziano a subire allucinazioni e visioni legate ai propri traumi personali. È sempre più chiaro che la Event Horizon non è semplicemente tornata dallo spazio, ma da un luogo in cui le leggi della realtà sembrano essersi spezzate. La rivelazione centrale del film è che la nave ha attraversato una dimensione assimilabile a un Inferno assoluto, riportando indietro non solo se stessa, ma anche una volontà maligna.
In questo contesto, il personaggio di Weir subisce una trasformazione radicale. Progressivamente privato della sua umanità, diventa il portavoce dell’entità che ha preso possesso della nave. Il momento chiave arriva nello scontro finale sul ponte di comando, quando Miller gli chiede dove siano finiti i suoi occhi, dopo aver scoperto il suo volto mutilato. La risposta di Weir è glaciale e definitiva: «Dove stiamo andando, non avremo bisogno degli occhi per vedere». Una battuta che sintetizza l’orrore cosmico del film, suggerendo l’esistenza di una realtà così estrema da rendere inutili i sensi umani.

Sam Neil in Event Horizon
È proprio questa capacità di evocare più di quanto mostri a rendere Event Horizon un caso unico nel panorama della fantascienza horror. L’atmosfera gotica, l’uso del suono, l’isolamento dello spazio profondo e il costante senso di impotenza costruiscono un’esperienza che punta sull’immaginazione dello spettatore più che sull’esplicito. Rivalutato negli anni come film di culto, il lungometraggio di Anderson è oggi considerato uno degli esempi più riusciti di horror cosmico al cinema, e quella frase pronunciata da Sam Neill continua a rappresentarne il cuore più oscuro e memorabile.
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