Site icon visionedigitale.it

Dopo 13 anni questo film ci fa ancora scervellare sul suo più grande mistero

Dopo 13 anni questo film ci fa ancora scervellare sul suo più grande mistero

Ci sono film che anche dopo molti anni dalla loro uscita continuano a insinuarsi nella memoria collettiva, riemergendo ciclicamente ogni volta che qualcuno le recupera o decide di parlarne. Enemy, il film di Denis Villeneuve tratto dal romanzo L’uomo duplicato di José Saramago, appartiene precisamente a questa categoria. È uno di quei titoli che non si esauriscono con la visione, ma che restano sospesi, pronti a riaprire domande irrisolte. Chi lo ha visto ricorda la sensazione disturbante, quasi viscerale, che accompagna tutta la narrazione, ma ciò che più ha resistito al tempo è soprattutto il suo finale enigmatico, un’immagine capace di mettere ancora oggi alla prova anche lo spettatore più attento.

Al centro della storia c’è Adam Bell, un professore universitario dalla vita monotona e ripetitiva, che un giorno si imbatte per caso in un attore identico a lui: Anthony Claire. Da questo incontro nasce un intreccio che non segue mai la strada più semplice o più convenzionale. Villeneuve lavora costantemente sulla tensione tra realtà e percezione, e il film procede come un sogno lucido in cui ogni dettaglio sembra avere un doppio fondo. La somiglianza perfetta tra i due uomini apre immediatamente a un campo di interpretazioni che, ancora oggi, divide pubblico e critica. La domanda iniziale, se Adam e Anthony siano davvero due persone distinte o due frammenti della stessa identità, non trova mai una risposta definitiva, ma si insinua scena dopo scena come il filo invisibile che tiene insieme tutta la narrazione.

Questa ambiguità trova la sua massima espressione nel finale, uno dei più discussi degli ultimi anni. Senza spiegazioni, senza preparazione apparente, una delle figure femminili del film appare improvvisamente trasformata in un gigantesco ragno. Un’immagine così potente e improvvisa da modificare retroattivamente la percezione dell’intero racconto. Fin dall’inizio, infatti, Enemy dissemina simboli aracnidi: sogni, visioni, perfino un club clandestino in cui compare una tarantola. Il film non chiarisce mai il significato di questi elementi, ma negli anni sono emerse diverse letture.

La prima, tra le più accreditate, interpreta Adam e Anthony come due lati della stessa psiche: uno represso, insicuro, legato alle regole; l’altro impulsivo, infedele, attratto dal rischio. Il ragno diventerebbe così l’incarnazione delle paure più profonde del protagonista, e la metamorfosi finale una proiezione diretta del suo senso di oppressione. Un’altra interpretazione sottolinea invece il ruolo del ragno come simbolo della donna percepita dal protagonista come figura dominante, quasi minacciosa, capace di intrappolarlo attraverso responsabilità, relazioni e desideri non risolti. C’è poi la lettura ciclica: il finale non sarebbe una conclusione, ma l’inizio di un nuovo loop, l’ennesima ripetizione di un comportamento autodistruttivo da cui Adam/Anthony non riesce a liberarsi.

Villeneuve non ha mai voluto spiegare in modo definitivo il significato dell’ultima scena, sottolineando come Enemy sia prima di tutto un’esplorazione dell’inconscio. È questa scelta a rendere il film ancora vivo: non c’è una soluzione, non c’è una chiave che chiuda tutte le porte. Dopo 13 anni, ciò che continua a farci scervellare non è tanto il mistero in sé, quanto il modo in cui il film ci costringe a interrogarci su ciò che abbiamo visto, su ciò che pensiamo di sapere e sulle paure che preferiremmo non guardare mai direttamente.

Leggi anche: Questo misterioso film italiano ha cambiato per sempre il nostro cinema. Ma in pochi se ne accorsero subito

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Exit mobile version