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Dimenticate i cowboy: questo western gelido e feroce ha cambiato tutto senza che ce ne accorgessimo

Dimenticate i cowboy: questo western gelido e feroce ha cambiato tutto senza che ce ne accorgessimo

Tra tutti i western che hanno riscritto il genere, pochi sono rimasti così impressi nell’immaginario collettivo come Il grande silenzio. L’opera di Sergio Corbucci, uscita nel 1968, non è semplicemente un altro spaghetti western: è un film che anticipa il linguaggio del moderno neo-western con una lucidità sorprendente. Al posto dei paesaggi assolati e della mitologia eroica tipica del genere, Corbucci immerge lo spettatore in un inferno bianco, gelido e spietato, dove ogni traccia di moralità sembra essersi congelata insieme alla neve che avvolge Utah.

A differenza di molti suoi contemporanei, Corbucci abbandona qualsiasi consolazione narrativa. Non ci sono eroi senza macchia né cattivi da punire: ci sono solo figure disperate, bounty killer armati dalla legge e un pistolero muto — Silence, interpretato da Jean-Louis Trintignant — che sopravvive in un mondo dove parlare non serve a niente e l’unico linguaggio è quello della violenza. La scelta di un protagonista che non proferisce parola è già una dichiarazione di intenti: Il grande silenzio non vuole raccontare una leggenda, ma smontarla.

Il gelo diventa un’arma narrativa. Dove Leone lavorava con ombre, sudore e polvere, Corbucci utilizza il bianco abbacinante della neve per cancellare i contorni, appiattire le figure e costruire un’atmosfera sospesa, quasi irreale. In questo spazio desolato, il male non si nasconde: cammina alla luce del sole, indossa un distintivo e ha il volto glaciale di Klaus Kinski nei panni del bounty killer Loco. La legge non protegge: perverte. E a differenza di altri western, qui il sistema non è qualcosa da ripristinare, ma un meccanismo marcio che nessuno può fermare.

L’esito della storia è un’altra frattura radicale con la tradizione. Niente duello liberatorio, nessun trionfo della giustizia. Il film termina nel modo più duro e inaspettato: con la morte. Non l’eroica morte di un pistolero sconfitto ma di un uomo travolto da una macchina più grande di lui, incapace di sovvertire un ordine sociale che vive e prospera sull’abuso. Un finale che nel 1968 fu considerato quasi scandaloso, ma che oggi risuona con la forza di un presagio.

Il tempo, infatti, ha dato ragione a Corbucci. Rivedendo Il grande silenzio alla luce di titoli come Non è un paese per vecchi, The Proposition o Il potere del cane, è evidente quanto il western moderno abbia ereditato quello sguardo disilluso: l’idea di un mondo dove il male non viene sconfitto e dove la violenza è una risposta naturale a un sistema irrimediabilmente corrotto. Il film era troppo avanti per il suo tempo, ma proprio per questo oggi appare incredibilmente contemporaneo.

Cinquant’anni dopo, il suo impatto continua a crescere. Restaurazioni, proiezioni in festival e nuove analisi critiche hanno riportato alla luce un’opera che non ha mai smesso di influenzare registi e sceneggiatori. Se Leone costruiva la mitologia del West, Corbucci ne mostrava l’autopsia. E questa visione spietata, radicale e terribilmente onesta è ciò che rende Il grande silenzio uno dei film più importanti e più disturbanti mai girati nel genere western.

Fonte: Collider

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