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Devi essere praticamente un genio per capire questo film del 2013

Devi essere praticamente un genio per capire questo film del 2013

Negli ultimi anni il pubblico si è abituato a confrontarsi con film che fanno della complessità narrativa e simbolica il loro marchio di fabbrica. Titoli come The Wailing, I’m Thinking of Ending Things, Enemy o Mulholland Drive sono diventati esempi ricorrenti quando si parla di cinema che non offre risposte immediate, che frammenta il racconto e chiede allo spettatore uno sforzo attivo di interpretazione. Eppure esiste un film del 2013, meno citato ma altrettanto radicale, che per molti rappresenta una sfida ancora più estrema: Upstream Color.

Diretto, scritto, prodotto, montato e musicato da Shane Carruth, che interpreta anche uno dei protagonisti, Upstream Color è un’opera che rifiuta fin dall’inizio le convenzioni della narrazione tradizionale. Il film segue la storia di Kris, una donna che viene drogata e manipolata attraverso un misterioso organismo parassita, perdendo progressivamente controllo sulla propria vita, sulle decisioni e persino sui ricordi. Dopo questo trauma incontra Jeff, un uomo che sembra portare addosso segni simili di una esperienza non del tutto spiegata. Tra i due nasce una relazione, ma è chiaro che qualcosa li lega a un livello più profondo, quasi biologico, che va oltre la semplice connessione emotiva.

Raccontare Upstream Color in modo lineare è difficile perché il film stesso evita qualsiasi spiegazione diretta. Carruth costruisce il senso attraverso ellissi, ripetizioni e associazioni visive e sonore, lasciando che molti passaggi restino impliciti. Elementi apparentemente marginali – animali, cicli naturali, gesti che si riflettono a distanza di tempo – diventano parte di un sistema più ampio che lo spettatore deve ricomporre da solo. Non c’è una voce guida, non c’è un momento in cui tutto viene chiarito: il film chiede di osservare, collegare e accettare anche l’ambiguità.

È proprio questa struttura a rendere Upstream Color uno dei film più difficili da “capire” del suo decennio. La complessità non sta solo nella trama, ma nel modo in cui viene comunicata, affidata più alle sensazioni che alle parole. Non sorprende quindi che la reazione del pubblico sia stata divisa. Molti spettatori hanno espresso frustrazione per una storia percepita come criptica e volutamente oscura, mentre altri hanno apprezzato l’esperienza come un raro esempio di cinema che non semplifica e non si adatta.

La critica, invece, si è mostrata in larga parte favorevole, sottolineando l’ambizione del progetto e la coerenza della visione autoriale. Upstream Color ha ottenuto ottimi riscontri aggregati e ha ricevuto anche un riconoscimento importante al Sundance Film Festival del 2013, dove ha vinto il premio speciale della giuria per il sound design, un aspetto centrale nel modo in cui il film costruisce significato. A distanza di anni resta un titolo che continua a far discutere, analizzare e dividere, confermando che, a volte, capire un film non è solo una questione di logica, ma di disponibilità a perdersi.

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