Anche a distanza di un secolo, questo capolavoro rivoluzionario continua a parlare al nostro presente

Stabilire cosa renda davvero un film un “classico” è sempre più complicato: oggi questo termine viene spesso attribuito anche a opere recentissime, senza che abbiano ancora dimostrato di poter attraversare il tempo. Eppure, molto prima dell’età d’oro di Hollywood e dei grandi nomi degli anni Trenta, il cinema aveva già iniziato a definire il proprio linguaggio altrove. Tra i film che hanno contribuito in modo decisivo a questa nascita, il capolavoro La corazzata Potëmkin occupa un posto centrale, non solo per la sua importanza storica, ma per la sua sorprendente attualità.

Uscito nel 1925 e diretto da Sergej Ejzenštejn, il film non rappresenta soltanto una delle vette del cinema muto: è una specie di “anno zero” del montaggio moderno, un’opera che ha insegnato al cinema come manipolare il tempo, lo spazio e soprattutto l’attenzione dello spettatore. Non a caso, la sua influenza attraversa il Novecento come una scossa elettrica: Orson Welles, Alfred Hitchcock, Billy Wilder (e decine di altri) hanno guardato a Potëmkin come a un manuale vivente, un esempio di come la regia possa costruire senso non solo attraverso ciò che mostra, ma attraverso come lo mette in relazione.

La storia prende spunto dall’ammutinamento reale dell’equipaggio di una nave da guerra russa nel 1905. Ejzenštejn struttura il racconto in cinque capitoli, quasi fossero movimenti di una sinfonia politica: la ribellione non esplode all’improvviso, ma nasce per gradi, mentre i marinai si confrontano con l’ingiustizia, con la violenza e con l’idea stessa di obbedienza. Il film mette subito al centro una domanda che resta bruciante: cosa succede quando la legge coincide con l’abuso? E fino a che punto l’etica personale può – o deve – diventare più forte degli ordini impartiti dall’alto?

A rendere Potëmkin così potente è anche la scelta di raccontare l’evento come un’emozione collettiva più che come un dramma individuale. Non c’è un “eroe” nel senso tradizionale: il protagonista è il gruppo, la comunità, un corpo unico attraversato da paura, rabbia, dignità. È un’idea tipica del cinema sovietico, certo, ma Ejzenštejn la trasforma in qualcosa di universale: la tensione nasce dal modo in cui i volti, i gesti e le masse diventano un linguaggio. Ancora oggi, molte immagini del film colpiscono proprio perché sembrano pensate per imprimersi nella memoria: non raccontano soltanto una storia, evocano un sentimento.

È qui che entra in gioco il “montaggio sovietico”, spesso citato come teoria ma raramente compreso nella sua forza concreta. Ejzenštejn non cerca la continuità, non vuole che lo spettatore “dimentichi” la macchina da presa: al contrario, usa il montaggio per produrre un’idea, per far scattare un’associazione mentale. Mostrare frammenti di realtà da prospettive diverse, accostare reazioni e azioni in modo non lineare, spezzare lo spazio e ricomporlo: tutto serve a creare una tensione che non è solo narrativa, ma intellettuale ed emotiva. È il cinema che scopre di poter ragionare, di poter discutere con lo spettatore, di poterlo spingere a prendere posizione.

Il momento in cui tutto questo diventa leggenda è la sequenza della scalinata di Odessa. La repressione contro la folla – donne, bambini, cittadini comuni – si trasforma in un incubo coreografico, un’onda di violenza che sembra impossibile fermare. Quella scena è così iconica da aver contaminato l’immaginario per decenni: è stata citata, omaggiata, riscritta infinite volte, perché non è soltanto “memorabile”. È un esempio lampante di come il cinema possa incidere sulla percezione della storia, fino a renderla indistinguibile dal suo racconto. Ancora oggi, quando pensiamo alla brutalità di un potere che schiaccia i corpi inermi, spesso lo facciamo attraverso immagini che Ejzenštejn ha reso eterne.

Ed è anche per questo che La corazzata Potëmkin viene spesso discusso come film di propaganda: la sua intenzione politica è chiara, e la sua capacità di guidare l’emozione dello spettatore è impressionante. Ma la questione è più complessa di come sembra. Il cinema, da sempre, persuade: ogni film sceglie un punto di vista, decide cosa mostrare e cosa lasciare fuori campo. Potëmkin lo fa in modo esplicito e programmatico, e proprio questa “trasparenza” lo rende un caso affascinante. Guardarlo oggi con consapevolezza storica non significa ridurlo a documento ideologico: significa capire come un’opera possa essere insieme figlia del suo tempo e, allo stesso tempo, più grande del tempo che l’ha prodotta.

A un secolo di distanza, infatti, la sua urgenza non si esaurisce. Potëmkin continua a parlare al presente perché mette in scena dinamiche che riconosciamo fin troppo bene: la disuguaglianza tra chi comanda e chi subisce, l’abuso legittimato dalle istituzioni, la fragilità della verità quando si scontra con la forza, la nascita di una coscienza collettiva che decide di non accettare più “l’ordine naturale delle cose”. In un mondo in cui proteste, repressioni e conflitti tornano ciclicamente a occupare le immagini che consumiamo ogni giorno, questo film muto del 1925 sembra ancora capace di dirci qualcosa di essenziale: che la storia si ripete, ma anche che lo sguardo – se allenato – può riconoscerla.

La corazzata Potëmkin resta così un passaggio obbligato non solo per chi ama il cinema, ma per chi vuole capire cosa il cinema può fare: non semplicemente raccontare, ma costruire senso, generare memoria, scuotere coscienze. Un capolavoro rivoluzionario, sì, ma soprattutto un film vivo, che continua a interrogarci ogni volta che lo riguardiamo.

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