Ettore Scola costruisce con C’eravamo tanto amati un romanzo di formazione collettivo che attraversa trent’anni di storia italiana, dal dopoguerra ai primi Settanta, seguendo tre amici – Antonio, Nicola, Gianni – e una donna, Luciana, che incrocia e spezza i loro destini. Il punto non è “chi ha amato chi”, ma come l’entusiasmo della Resistenza si misuri, negli anni, con le seduzioni del boom, la delusione politica, l’avanzata della televisione e di un benessere capace di anestetizzare i conflitti.
Scola, con Age & Scarpelli alla sceneggiatura, fa dialogare memoria privata e memoria cinematografica. Il primo segmento, in un bianco e nero che richiama il neorealismo, racconta l’immediato dopoguerra e l’incrinarsi dell’ideale collettivo. Poi il colore esplode insieme alla nuova prosperità: l’inquadratura si fa più opulenta, quasi “felliniana”, fino all’alienazione “antonioniana” dell’ultima parte, dove i personaggi sembrano muoversi in spazi sempre più vuoti. Non è un gioco di citazioni: è l’idea che l’Italia si sia guardata, capita e forse illusa attraverso i suoi film. Non a caso l’opera è dedicata a De Sica e incastona – con ironia e affetto – deviazioni metacinematografiche, apparizioni, set dentro il set, fino a trasformare il cinema in un controcampo permanente della vita.
Antonio resta l’uomo comune, testardo nella sua bontà; Nicola è l’intellettuale incendiario che scambia la cinefilia per militanza; Gianni il brillante idealista che piega le convinzioni al successo, fino a confonderle con l’eleganza di un salotto bene. Luciana, attrice mancata e figura-misura del desiderio, diventa il prisma attraverso cui leggere speranze e disincanti di un’epoca. Tutti, a modo loro, imparano che la storia ti cambia anche quando credi di abitarla da protagonista.
Il film alterna comicità acuminata e struggimento, e spesso i due registri coincidono. Memorabile, in questo senso, è l’episodio televisivo: un quiz che pretende una risposta “giusta” su Ladri di biciclette e che punisce l’esattezza pedante più della superficialità. Scola colpisce due bersagli: la presunzione di chi fa della cultura un’arma identitaria e l’industria dello spettacolo che semplifica, misura, mercifica persino la commozione. È la stessa doppia lama che attraversa gli incontri con imprenditori senza scrupoli, politici disinvolti, famiglie arricchite e svuotate: risate amarissime che rivelano, sotto la battuta, la ferita.
La regia, di una libertà sorprendente, intreccia voice over, ellissi, freeze-frame, sguardi in camera, improvvise soglie tra realtà e immaginazione: non per virtuosismo, ma per restituire la natura intermittente del ricordo. C’eravamo tanto amati è un film di “movimenti” più che di atti: ogni volta che scatta un nuovo tempo – pubblico o privato – cambia il respiro dell’immagine, mutano le regole del racconto, si ricalibra il rapporto fra i quattro. Eppure la linea resta nitida: tre amici che, seduti a un tavolo, scoprono che il futuro è passato accanto a loro senza farsi riconoscere.
Perché commuove ancora oggi? Perché parla di una promessa mancata senza cinismo, e di un affetto che resiste alle cadute. Perché sa ridere dei nostri autoinganni senza umiliarli. Perché riconosce al cinema il potere di custodire le vite – e insieme la sua impotenza a cambiarle da solo. Soprattutto, perché in Antonio, Nicola, Gianni e Luciana non vediamo “tipi” del passato, ma figure che ci appartengono: il lavoratore che tiene la schiena dritta, l’intellettuale che scambia il giudizio per azione, il professionista che baratta i principi, l’attrice che sogna un ruolo e trova un destino.
C’eravamo tanto amati resta così un manifesto raro: una commedia popolare che intreccia la piccola biografia di ognuno con la grande biografia del Paese, e ci ricorda che la memoria non è mai un archivio da sfogliare – è la sostanza di cui siamo fatti, ieri come oggi.
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