Anche a distanza di anni, il colpo di scena di questo controverso film horror non ha assolutamente senso

Nel panorama horror dei primi anni Duemila, The Skeleton Key (2005) occupa un posto particolare. Diretto da Iain Softley e interpretato da Kate Hudson, arrivava in un periodo dominato da film come Saw e Hostel, dove l’orrore si misurava in litri di sangue e crudeltà visiva. In controtendenza, The Skeleton Key sceglieva una via più raffinata: niente torture, niente mostri, ma una tensione costruita sull’invisibile, sulla superstizione e sul potere della mente.

L’ambientazione — una vecchia villa immersa nelle paludi della Louisiana — e il tema del hoodoo, la tradizione magico-religiosa afroamericana, conferivano al film un fascino sinistro e autentico. Il risultato è un thriller gotico dal ritmo lento, dove ogni scricchiolio, ogni sguardo ambiguo, contribuisce a creare un costante senso di minaccia. Tutto sembra portare a un grande colpo di scena finale. Ed effettivamente, il film lo offre. Peccato che, anche dopo vent’anni, quel twist non abbia ancora alcun senso.

La protagonista, Caroline Ellis, è un’infermiera che, delusa dal lavoro in ospedale, accetta un incarico come assistente domiciliare per un anziano paralizzato, Ben Devereaux, in una villa isolata della Louisiana. Ad accoglierla è la moglie dell’uomo, Violet (Gena Rowlands), una donna inquieta e ostile, ma apparentemente devota al marito.

Fin dai primi giorni, Caroline percepisce che qualcosa non va. L’uomo sembra più cosciente e reattivo di quanto voglia far credere, la casa è piena di oggetti rituali e simboli religiosi, e un solaio chiuso da anni custodisce un mistero che attende solo di essere scoperto. Usando la “chiave scheletro” del titolo, Caroline apre quella stanza proibita e trova strumenti magici, dischi rituali e tracce di antichi riti di hoodoo.

Scavando nel passato della casa, scopre la leggenda di Papa Justify e Mama Cecile, due servitori afroamericani praticanti di magia nera, linciati decenni prima da una folla inferocita. Secondo la storia, i due erano stati sorpresi mentre eseguivano un rituale con i figli dei padroni. Da allora, i loro spiriti infestano la dimora, in cerca di nuovi corpi da possedere.

Tutto il film costruisce un lento percorso di scoperta e di dubbio. Caroline è una donna razionale, disincantata, che non crede a fantasmi o maledizioni. Eppure, più scopre, più inizia a sospettare che qualcosa di sovrannaturale sia davvero in gioco. Finché, nel finale, arriva la rivelazione: Violet e il suo presunto marito non sono affatto chi sembrano.

I due anziani sono in realtà proprio Mama Cecile e Papa Justify, che da anni trasferiscono le proprie anime nei corpi di giovani vittime, condannandole a restare intrappolate nei corpi vecchi e morenti che lasciano dietro di sé. Caroline è solo la loro prossima preda.

L’idea in sé è affascinante, ma è qui che il film si sgretola. Il rituale funziona solo se la vittima “crede” nell’hoodoo. Una regola chiara, stabilita più volte nel corso della storia. Tuttavia, Caroline non crede mai davvero. È scettica dall’inizio alla fine, e quando decide di tentare un rito per “liberare” Ben, lo fa per disperazione, non per fede. Eppure, secondo la logica del film, quella minima esitazione basta a farle perdere la sua anima.

È una contraddizione che mina completamente il colpo di scena. Se il rituale richiede fede, il film dovrebbe mostrarci un progressivo cambiamento psicologico, un passaggio dalla razionalità alla credenza. Ma ciò non accade: il film afferma che Caroline crede, senza mostrarlo davvero. E così, il momento più atteso diventa anche il più debole.

Ciò che resta è un film affascinante dal punto di vista visivo — con le sue atmosfere gotiche e la colonna sonora inquieta di Edward Shearmur — ma narrativamente traballante. The Skeleton Key aveva in mano una delle idee più originali del decennio: riflettere sul potere del credere, sull’autosuggestione e sulla linea sottile tra realtà e superstizione. Tuttavia, il film preferisce sorprendere piuttosto che convincere.

Il finale lascia lo spettatore confuso, non per la complessità del messaggio, ma perché le regole del suo stesso mondo non sono coerenti. E in un horror che fa della fede e del dubbio il cuore della sua tensione, questa è la peggiore delle maledizioni.

A distanza di quasi vent’anni, The Skeleton Key resta un titolo intrigante, capace di evocare atmosfere rare nel cinema horror americano, ma anche un esempio perfetto di come un twist, per funzionare davvero, debba prima di tutto rispettare la logica della propria storia. Perché quando il colpo di scena tradisce le sue stesse regole, non resta che lo stupore — e un grande punto interrogativo.

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