A più di vent’anni dalla sua uscita, Tokyo Godfathers continua a imporsi come un caso quasi unico nel panorama dell’animazione giapponese: un film natalizio che rifiuta qualsiasi forma di idealizzazione, ma che proprio per questo riesce a incarnare lo spirito delle feste in modo più profondo e sincero di molti titoli dichiaratamente “di Natale”. Diretto da Satoshi Kon, il film arriva nelle sale nel 2003 con l’ambizione – allora inusuale per un anime – di confrontarsi apertamente con il pubblico internazionale e persino con la stagione dei premi. Anche se l’Oscar non arriva, il tempo ha finito per dare ragione a quell’azzardo.
Ambientato in una Tokyo fredda, sporca e indifferente, il film segue tre senzatetto – Gin, Hana e Miyuki – che trovano una neonata abbandonata la notte di Natale. Da qui prende forma un racconto che mescola commedia amara, dramma sociale e racconto morale, senza mai scivolare nel sentimentalismo facile. Kon ribalta l’iconografia classica delle feste: niente luci rassicuranti, niente famiglie perfette, ma persone ai margini che cercano di sopravvivere a se stesse prima ancora che al mondo.
Uno degli elementi che rende Tokyo Godfathers ancora oggi così potente è il modo in cui affronta temi scomodi – povertà, identità, colpa, solitudine – all’interno di una struttura narrativa sorprendentemente accessibile. Kon non utilizza il fantastico come fuga dalla realtà, come spesso accade nell’animazione, ma come strumento per rendere più evidente la sua crudezza. La città diventa un labirinto di coincidenze, incontri improbabili e apparenti miracoli, in cui ogni evento sembra frutto del caso ma finisce per assumere un valore quasi provvidenziale.
Il cuore del film è la famiglia scelta, non quella biologica. Gin, Hana e Miyuki non condividono nulla se non le ferite del passato, eppure il loro legame si rivela più autentico di molte relazioni “tradizionali”. Ognuno di loro è in fuga: Gin da una vita fallita, Hana da un amore perduto, Miyuki da una colpa che crede imperdonabile. Il viaggio per restituire la bambina ai suoi genitori diventa così un percorso di confronto con le proprie responsabilità, in cui la redenzione non è mai garantita, ma resta possibile.
Anche nei suoi momenti più duri, Tokyo Godfathers non rinuncia all’umorismo, spesso grottesco, a volte spiazzante. È una risata che non consola, ma alleggerisce senza negare il dolore, rendendo il film profondamente umano. Kon dimostra una sensibilità rara nel raccontare personaggi imperfetti senza giudicarli, lasciando che siano le loro azioni – più che le parole – a definire chi sono davvero.
Rivederlo oggi significa riscoprire un’opera che ha anticipato molte riflessioni contemporanee sull’inclusione, sull’identità e sul significato stesso di “miracolo”. In un periodo dell’anno dominato da narrazioni rassicuranti, Tokyo Godfathers ricorda che la speranza non nasce dalla perfezione, ma dalla capacità di riconoscersi fragili e, nonostante tutto, degni di una seconda possibilità. È anche per questo che, a distanza di oltre due decenni, resta il miglior anime da vedere a Natale: non perché parli delle feste, ma perché ne coglie l’essenza più autentica.

