Alluscita, questo sci-fi italiano degli anni 60 fu un disastro. Oggi è un cult mondiale

Roma non era Hollywood, e Mario Bava non aveva i milioni dei kolossal americani. Eppure da un set minuscolo, riciclato da altre produzioni e inzuppato di fumo colorato, nasce un film che all’inizio fa storcere il naso a molti e nel tempo diventa una pietra angolare dello sci-fi horror. Terrore nello spazio è il caso scuola di come l’inventiva possa travolgere i limiti produttivi: un’opera che, tra nebbie acide e cromatismi impossibili, anticipa suggestioni poi esplose in Alien e nella fantascienza cupa degli anni a venire.

Quando uscì nel 1965, il film venne accolto con diffidenza: sembrava troppo strano per il pubblico di massa e troppo “popolare” per la critica d’autore. Eppure, a distanza di decenni, Terrore nello spazio appare come una scintilla di genialità isolata nel panorama europeo, un ponte tra il gotico e il cosmo.

La storia è quasi da pulp magazine: due astronavi, Argos e Galliott, captano un segnale di soccorso e atterrano su un pianeta sconosciuto, Aura. Qualcosa però s’insinua nelle menti degli astronauti, trascinandoli in una spirale di paranoia, possessioni e cadaveri che si rialzano. L’orrore non è fuori, è tra loro. Niente vampiri, malgrado il titolo internazionale (Planet of the Vampires); piuttosto un’idea disturbante di sopravvivenza aliena che usa i corpi altrui come veicoli. Bava si muove dentro un racconto sci-fi e lo trasforma in un incubo metafisico, dove i confini tra vita e morte, tra umano e inumano, diventano sfumature di colore.

È qui che il regista compie il salto. Prende l’ossatura del racconto di Renato Pestriniero Una notte di 21 ore e la piega al suo immaginario: il gotico trasloca nello spazio, le geometrie espressioniste diventano crateri e rocce, la luce scolpisce volumi impossibili. Con tre elementi – fumo, controluce e fondali dipinti – Bava costruisce un pianeta che non esiste ma che sentiamo reale, perché il suo cinema è tutto nella percezione. Rosso, blu, verde: le “orgie cromatiche” di cui hanno scritto gli studiosi sono vera e propria drammaturgia. Rendono alieno l’ambiente, creano vertigine, fanno del paesaggio un personaggio. È il trionfo dell’artigianato come arte: con nulla in mano, Bava dà corpo a un intero universo.

La messa in scena è un manuale di soluzioni povere e geniali: modellini girati in vasca per simulare gli atterraggi, prospettive forzate per far convivere attori ed enormi reperti scheletrici, monitor “finti” ottenuti con riflessi e lampi. L’effetto non è realistico, è ipnotico. Il pianeta sembra uscito dalle copertine delle riviste pulp, e proprio per questo diventa mitologia. Anche i costumi – tute di pelle nera da motociclista, oggi oggetto di culto – contribuiscono al senso di mondo a sé: un futuro immaginato con stile italiano, dove anche le protagoniste femminili hanno un’agency insolitamente moderna per il 1965. C’è qualcosa di La dolce vita persino nei loro sguardi e nei gesti: il glamour si fonde con il terrore.

Sotto la superficie, Terrore nello spazio lavora con riferimenti letterari che all’epoca non erano patrimonio della fantascienza mainstream: la frontiera morale di Conrad, il terrore cosmico di Lovecraft, l’idea che l’ignoto non si combatta, si subisca. Il tempo si dilata, le identità vacillano, la catena di comando si sgretola. E quella celebre sequenza nella nave abbandonata con il gigantesco scheletro alieno e il log in lingua incomprensibile è il punto di contatto più evidente con l’immaginario che, anni dopo, Ridley Scott e Dan O’Bannon porteranno a compimento. Perfino i colori delle nebbie, le ombre dei caschi, la sensazione di claustrofobia sono citazioni involontarie che riaffioreranno quattordici anni dopo in Alien.

Snobbato o liquidato come serie B al momento dell’uscita, Terrore nello spazio è poi diventato testo fondativo per registi diversissimi – da Carpenter a Dante, da Argento allo stesso Scott – e oggi è riconosciuto come uno dei vertici del Bava “visionario”. Il suo lascito scorre nel brivido industriale degli anni ’70 e ’80, nel survival claustrofobico, persino nei videogiochi horror spaziali che hanno fatto del senso di isolamento e della minaccia senza volto un linguaggio. La sua influenza attraversa anche i confini della cultura visiva: il modo di rappresentare la paura, la luce, la solitudine, deriva in parte da quelle immagini.

Passato lo scetticismo iniziale, Terrore nello spazio è diventato un film-ponte: dalla fantascienza avventurosa al terrore metafisico, dal fumetto alla sala, dal B-movie al culto. È il punto in cui il cinema italiano, senza accorgersene, si affaccia sul futuro. Negli ultimi anni il recupero filologico ha fatto il resto, tra restauri e edizioni da collezione che ne valorizzano la fotografia e la colonna sonora elettronica di Gino Marinuzzi Jr., restituendo alla visione domestica quelle sfumature di colore e quel design che al cinema, nel 1965, potevano sembrare “troppo”. Oggi sono la sua firma, un marchio riconoscibile come i guanti neri di un assassino nel giallo.

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