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A quasi 50 anni dalla sua uscita, questo film italiano resta uno dei racconti più radicali sulla libertà e sull’educazione

A quasi 50 anni dalla sua uscita, questo film italiano resta uno dei racconti più radicali sulla libertà e sull’educazione

Non è la nostalgia a riportarci a questo film, ma la sua capacità di trasformare l’educazione in un campo di battaglia: la conoscenza come disobbedienza, la parola come via di fuga, la famiglia come luogo del potere. Un racconto che ancora oggi graffia perché chiama le cose per nome. Ci riferiamo a Padre padrone dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Palma d’oro a Cannes nel 1977 (insieme al FIPRESCI), tratto dall’autobiografia di Gavino Ledda: la storia di un bambino strappato alla scuola dal padre-padrone e costretto alla pastorizia nella Sardegna più aspra, che attraverso le parole, la musica e lo studio arriva a farsi uomo libero e infine docente di linguistica.

I Taviani raccontano l’educazione come campo di battaglia. Da un lato c’è il mondo chiuso e patriarcale dell’infanzia di Gavino: l’autorità assoluta del padre Efisio (Omero Antonutti), la religione come freno, la marginalità culturale, il disprezzo per le donne, la solitudine come metodo di dominio. Dall’altro c’è il lento, ostinato “risveglio” del figlio (Saverio Marconi) che passa prima dall’ascolto dei suoni — l’accordion barattato, i rumori degli uomini e delle bestie — poi dall’alfabeto e dalle lingue, fino alla conquista della comunicazione. Non è un percorso facile o edificante: la ribellione nasce nell’attrito quotidiano, tra rientri forzati al gregge, violenze domestiche, fallimenti e riprese. Ma una volta presa la parola, il silenzio non torna più a essere una gabbia.

La regia ha un taglio dichiaratamente didattico e “distanziante”, e proprio qui sta la sua forza. I Taviani alternano realismo ruvido e lampi di lirismo, inseriscono la presenza reale di Gavino Ledda che “incornicia” la finzione come in un moderno teatro della memoria, scolpiscono la Sardegna non come cartolina ma come paesaggio mentale: rocce, vento, stazzi, una natura che educa e ferisce. L’uso del suono è decisivo: dal mutismo iniziale si passa a un apprendistato dell’ascolto, fino a una musica che diventa pensiero. La fotografia di Mario Masini restituisce la terra e la carne con essenzialità, il montaggio di Roberto Perpignani evita il compiacimento, la partitura di Egisto Macchi lavora come controcanto alla durezza delle immagini.

Padre padrone non cerca il compromesso con lo spettacolo. Rifiuta la scorciatoia del “paesaggio bello”, rinuncia alle star, mette la macchina da presa al servizio di un’idea di cinema come conoscenza della realtà. È un film “aspro, tosto, brutale” e al tempo stesso accessibile, perché parla chiaro. Parla della fatica di misurarsi con un’autorità che non è solo un padre, ma un sistema: famiglia, lavoro, religione, Storia. E parla del coraggio di negare l’isolamento, di uscire dall’autosufficienza imposta, di cercare nella cultura una comunità possibile. Nelle parole dei registi, la scelta della “parola” come strumento di liberazione di Ledda risuona con il loro stesso mestiere: il cinema come altro linguaggio per la stessa urgenza, comunicare per non subire.

La scena madre del confronto finale tra Gavino ed Efisio condensa l’intero film: non c’è catarsi facile, non c’è idillio. C’è un nodo fisico e morale quasi insopportabile, l’immagine di una violenza che si spezza perché finalmente ha trovato un contrappeso: la coscienza di sé. Intorno, figure secondarie mai decorative — la madre (Marcella Michelangeli), i compagni di leva, un giovane Nanni Moretti in un breve ma significativo passaggio — tessono il quadro sociale di un’Italia in transizione, dove l’analfabetismo non è solo mancanza di lettere, ma di diritti e di futuro.

Inserito nel percorso dei Taviani, il film suona come un approdo. Dopo le utopie contraddittorie di San Michele aveva un gallo e Allonsanfàn, qui l’orizzonte si abbassa e si fa immediato: non la rivoluzione con la “R” maiuscola, ma la riforma del presente attraverso una storia singolare che diventa paradigma. È anche per questo che, a distanza di quasi mezzo secolo, l’opera resta attuale. Perché interroga il nostro modo di pensare l’educazione — familiare, scolastica, civica — e mette a nudo quanto potere esercitino ancora oggi il paternalismo, le culture del possesso, le piccole e grandi violenze normalizzate.

Padre Padrone mette in chiaro che la libertà non è un’illuminazione improvvisa, ma un apprendistato lungo, fatto di parole conquistate e di silenzi rot­ti. Continua a dialogare con il pubblico perché mostra come si impara a parlare: attraversando il deserto dell’obbedienza per arrivare a nominare il mondo. E ricordarci che, finché esiste una lingua da imparare e da condividere, esiste anche una via d’uscita dall’arbitrio.

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