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A più di 60 anni dalla sua uscita, questo film resta una delle opere più sincere e struggenti sull’Italia che cercava di rinascere

A più di 60 anni dalla sua uscita, questo film resta una delle opere più sincere e struggenti sull’Italia che cercava di rinascere

C’è un’Italia che rinasce e si industrializza, e c’è un ragazzo che entra per la prima volta in ufficio. In Il posto di Ermanno Olmi, Domenico lascia la provincia per Milano, affronta selezioni, visite mediche grottesche, corridoi interminabili, scrivanie tutte uguali. Quel percorso, apparentemente minimo, diventa un romanzo di formazione laico e commovente: la giovinezza si misura con il lavoro, la solitudine si traveste da ordine, la speranza trova un varco nell’incontro con Antonietta e poi si perde nella routine. Sessant’anni dopo, il film continua a parlare di noi perché leva la voce dal dettaglio, dall’impercettibile: un gesto imitato al bar, una tazza appoggiata come fanno i grandi, la ricerca di uno sguardo più gentile della segretaria quando il capo non alza gli occhi.

Olmi parte dalla propria esperienza di impiegato e porta sullo schermo attori non professionisti; cerca volti, non performance. Sandro Panseri fa vivere Domenico con una timidezza disarmata, Loredana Detto illumina Antonietta con una grazia quotidiana. La macchina da presa osserva senza imporre, registra il mondo come se fosse lì da sempre: la sala d’attesa, i test assurdi, la fila che scorre come un gregge, l’ufficio che ronza di piccoli rituali. È un realismo umanista che non pretende la denuncia ma scava con pazienza nell’attrito fra desiderio e necessità. Olmi non è neorealista per programma: usa il vero per arrivare all’astrazione. A poco a poco l’azienda diventa un labirinto leggermente kafkiano, una favola grigia sulla sicurezza che si fa gabbia.

Indimenticabile la deviazione narrativa in cui il film abbandona per un attimo Domenico e segue alcuni impiegati a casa: un lampo di pietà che restituisce umanità a quelle figure che altrimenti resterebbero ombre dietro una scrivania. È qui che Olmi mostra la propria scala orizzontale: non guarda dall’alto, sta accanto ai suoi personaggi, li ascolta, li lascia respirare. Come De Sica, lavora di gesti e sguardi, ma evita ogni ricatto emotivo; come certi autori della Nouvelle Vague, si concede pause e attese, un tempo morto che diventa tempo vivo.

Il ballo di Capodanno in azienda concentra la promessa e la delusione del film: l’allegria collettiva copre per un attimo la malinconia, ma l’imbarazzo di Domenico, la sua esitazione davanti alle ragazze, la danza gentile con una donna più adulta sono la misura di un passaggio che non si compie. Più tardi, il posto da cassiere si libera per una morte improvvisa: il vuoto di un cassetto svuotato, una pagina di romanzo lasciata a metà, l’eco di un sogno estinto. Quando Domenico siede all’ultima scrivania della fila, capisce che quel traguardo rischia di essere una condanna: la catena di montaggio dei suoni d’ufficio scandisce il suo futuro, e il suo sguardo finale è un piccolo, gigantesco addio all’illusione.

Il miracolo di Il posto è tutto qui: prendere l’ordinario e farne poesia. Olmi trasforma la prima assunzione in un racconto di educazione sentimentale e civile, dove l’amore resta possibile ma non garantito, e il lavoro non è inferno né paradiso, è la zona grigia in cui l’identità si definisce o si consuma. Lontano dai proclami, vicino alle persone, il film resta una delle opere più sincere e struggenti sull’Italia che si mette in piedi e paga quel progresso con l’alienazione di chi si scopre sostituibile. Forse per questo, guardarlo oggi è come rivedere una foto in cui riconosciamo i nostri inizi: timidi, spaesati, ostinatamente vivi.

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