Site icon visionedigitale.it

A più di 40 anni dall’uscita, questo film ha ridefinito il realismo italiano e ci costringe ancora oggi a guardare in faccia la Storia

A più di 40 anni dall'uscita, questo film ha ridefinito il realismo italiano e ci costringe ancora oggi a guardare in faccia la Storia

Francesco Rosi, nel 1979, porta sullo schermo il libro di Carlo Levi e sposta il baricentro del suo cinema: dal j’accuse frontale di Salvatore Giuliano, Il caso Mattei o Le mani sulla città a un realismo etnografico e umanista che non predica ma osserva. Cristo si è fermato a Eboli racconta l’Italia del confino, ma soprattutto un Sud che il Nord ha a lungo considerato “fuori campo”: un mondo dove la povertà materiale convive con una dignità ostinata, un lessico di tradizioni, saperi arcaici, superstizioni e solidarietà che sfida le semplificazioni.

Siamo nel 1935. Carlo Levi – medico, pittore, intellettuale antifascista – viene relegato in Lucania (oggi Basilicata), a Gagliano: firma in caserma, subisce la censura, impara a vivere in un tempo sospeso. Rosi aderisce con fedeltà all’impianto del libro del 1945, ma lo traduce in cinema attraverso tre assi che restano memorabili: la fotografia di Pasqualino De Santis, che guarda ai quadri di Levi e a Caravaggio per scolpire volti e paesaggi in una luce terrosa e carica di memoria; la musica di Piero Piccioni, scarna e malinconica, che affiora come un respiro e non come un commento; e l’interpretazione di Gian Maria Volonté, che non “imita” Levi ma ne assorbe postura morale e sguardo, portando in scena una misura rara, quasi pudica.

Rosi gira nei luoghi del libro e fa recitare molti abitanti reali: il paese non è sfondo ma organismo vivente. Le scene quotidiane – le chiacchiere in piazza, la compravendita spicciola, i riti domestici, perfino l’abbattimento del maiale – hanno la nettezza di un documentario di finzione. Nella casa dove Levi dipinge e, suo malgrado, torna a esercitare la medicina, si intrecciano classi e ruoli: l’alcalde fascista “per bene”, il prete impacciato, la donna “chiacchierata” che lavora da lui, i contadini che si sentono “meno che bestie” agli occhi dello Stato. È qui che il film misura la distanza – sociale, linguistica, simbolica – tra Nord e Sud, tra modernità industriale e un’Italia “devastata dal progresso” prima ancora di beneficiarne.

Il prologo con Levi anziano, chiuso in una stanza circondata dai suoi quadri, apre la porta alla memoria: non flashback illustrativi, ma ricordi che respirano. Il finale – l’addio sotto la pioggia, il paese che saluta, la radio che porta la voce di Mussolini sui campi – è una doppia ferita: da una parte l’affetto conquistato, dall’altra il rumore della Storia che incombe sui destini individuali. In mezzo c’è il percorso di uno “straniero” che diventa ponte: tra l’umanesimo del Nord e l’umanità dimenticata del Sud, tra l’impegno intellettuale e la pratica concreta del prendersi cura.

Il film preferisce l’allusione alla tiritera ideologica, senza ricercare tesi assolute ma affidando al montaggio e ai corpi il compito di politicizzare lo sguardo. Così Rosi ridefinisce il realismo: lo libera dalla pura denuncia, lo impasta con poesia, tempo, paesaggio, lo avvicina al neorealismo tardivo e insieme a un realismo magico che affiora nelle credenze, nei racconti, nei bambini che parlano coi morti. L’effetto è quello di un atlante del Mezzogiorno: niente folklore, nessuna cartolina. Solo la vertigine di una comunità che resiste, e il riconoscimento – duro ma necessario – di un’Italia rovesciata rispetto al racconto ufficiale.

Ancora oggi, Cristo si è fermato a Eboli resta una visione imprescindibile. Non perché inchiodi il Sud a un destino immutabile, ma perché ci obbliga – con la forza del cinema e non delle parole d’ordine – a guardare dove preferiremmo distogliere lo sguardo: nei vuoti di cittadinanza, nelle fratture territoriali, nella retorica del progresso che lascia dietro di sé scarti umani. È un film che educa lo sguardo senza mai alzare la voce. E che, più di quarant’anni dopo, continua a interrogarci sul significato di “essere uomini” dentro la Storia.

Leggi anche: A quasi 50 anni dalla sua uscita, questo film italiano resta uno dei racconti più radicali sulla libertà e sull’educazione

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Exit mobile version