A più di 40 anni dalla sua uscita, questo film resta il sogno sci-fi più inquietante e malinconico che il cinema ci abbia regalato

A più di quarant’anni dalla sua uscita, Fase IV: distruzione Terra (Phase IV)continua a essere un oggetto non identificato nella storia della fantascienza. Un film minuscolo, quasi clandestino, che sfida le classificazioni: non è un B-movie, non è un horror ecologista, non è nemmeno il classico racconto di “natura contro uomo”. È piuttosto un sogno lucido, inquieto e silenziosamente malinconico, costruito come un enigma geometrico sulla fragilità della prospettiva umana. L’unico lungometraggio diretto dal leggendario grafico Saul Bass – l’uomo dietro i titoli di testa di Vertigo, Psycho, Goodfellas e Casino – somiglia a ciò che ci si aspetterebbe da un artista abituato a condensare un film in un’immagine: una visione precisa, stilizzata, ipnotica.

Bass, che aveva rivoluzionato l’arte dei titoli di testa al fianco della moglie Elaine, si era convinto che il cinema dovesse catturare lo spettatore “dal primo fotogramma”. In Fase IVquesta idea diventa il cuore del film. L’immaginario è semplice ma perturbante: dopo un misterioso evento cosmico, una vasta colonia di formiche nel deserto americano evolve improvvisamente, sviluppando comportamenti e strutture che sfidano ogni logica. Le torri che costruiscono somigliano a monoliti primitivi, segnali extraterrestri in miniatura; il loro linguaggio è un sistema di forme, vibrazioni, linee. A indagare questo fenomeno vengono inviati due scienziati – l’entomologo James Lesko e il più impulsivo Ernest Hubbs – chiusi dentro una cupola geodetica che diventa un osservatorio, un laboratorio e una trappola.

La storia sembrerebbe quella di una classica guerra uomo-contro-natura, ma Bass la rovescia dall’interno. Le formiche non sono mostri in CGI che divorano esseri umani: sono osservate con una vicinanza quasi sacrale grazie alle microfotografie di Ken Middleham, che trasformano ogni zampa, ogni mandibola, ogni movimento collettivo in una danza aliena. Le sequenze dedicate agli insetti hanno un fascino a metà tra il documentario e la psichedelia; mostrano un’intelligenza che non arriva a imitare quella umana, ma a scardinarla. Le formiche creano rituali, proteggono i propri simili, elaborano strategie. E soprattutto comunicano, ma in un modo che per gli uomini resta incomprensibile.

Il film costruisce così un confronto tra due visioni del mondo. Da una parte Hubbs, ossessionato dal controllo e convinto che l’unica risposta alla minaccia sia l’annientamento; dall’altra Lesko, che tenta disperatamente un dialogo astratto, traducendo il comportamento delle formiche in parabole e schemi su un computer. Le loro reazioni opposte incarnano due modi di reagire all’ignoto: la paura che distrugge, o l’ascolto che cerca di capire. E intanto il deserto, le cupole metalliche, i cerchi tracciati dagli insetti e i miraggi cosmici creano un paesaggio mentale più che geografico, dove ogni forma diventa un tentativo di comunicare.

È anche per questo che Phase IV non assomiglia a nessun altro film degli anni Settanta: Bass evita il sensazionalismo e punta tutto sulla composizione dell’immagine, sui contrasti, sulle simmetrie che uniscono uomini e formiche come se appartenessero allo stesso disegno universale. La violenza non è mai spettacolare; è asciutta, disturbante, quasi inevitabile, come nella sequenza in cui un’intera casa viene ridotta in cenere dalle colonie che avanzano come un’unica entità.

Il finale, mutilato al momento dell’uscita in sala, è diventato leggenda. La versione distribuita è ellittica, inquieta, volutamente incompleta. Quella che Bass aveva ideato – recuperata solo anni dopo – era un collage di immagini visionarie, astratte, quasi espressioniste: un viaggio mentale alla 2001: Odissea nello spazio, che suggeriva una nuova simbiosi tra uomini e formiche, una fusione di prospettive destinata a rovesciare ogni certezza sulla superiorità umana. Vederla oggi è come scoprire un frammento di cinema perduto.

Probabilmente Fase IVfallì al botteghino perché fu venduto come un semplice film di “formiche assassine”, quando invece si trattava di un’opera contemplativa, filosofica e spaventosamente moderna. Bass voleva raccontare cosa succede quando smettiamo di essere il centro del mondo; quando scopriamo che ciò che ci appare minaccioso è solo qualcosa che non comprendiamo. È un film che chiede di cambiare punto di vista, e che proprio per questo continua a essere, dopo più di quarant’anni, uno dei sogni sci-fi più inquieti e visionari che il cinema ci abbia lasciato.

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