Krzysztof Kieslowski firma con La doppia vita di Veronica un racconto sospeso tra il visibile e l’invisibile, dove la trama è semplice e l’esperienza, invece, vertiginosa. Due giovani identiche e lontane — Weronika in Polonia e Véronique in Francia, entrambe interpretate da Irène Jacob — condividono una sensibilità musicale, la stessa fragilità del cuore e un’oscura intuizione: nel mondo esiste qualcun’altra come loro. Quando Weronika muore sul palco, Véronique avverte un lutto senza nome e smette di cantare. Da qui, il film interroga quel territorio del “possibile” fatto di strade non percorse, scelte mancate, segnali che non sappiamo spiegare ma riconosciamo con immediatezza emotiva.
Kieslowski e lo sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz coltivano l’ambiguità come una forma di rispetto per lo spettatore. Non chiariscono se siamo davanti alla stessa persona in due realtà parallele o a due sconosciute collegate da un misterioso legame. Il film lascia emergere corrispondenze, differenze, rime visive e gestuali, come a suggerire che ogni decisione scinde una possibilità e ne fa intravedere un’altra, simultaneamente familiare e straniera. Così il lutto di Véronique diventa anche il lutto di un sé potenziale: il dolore per ciò che non sarà, la rinuncia a un talento che forse l’avrebbe condotta allo stesso destino di Weronika.
A dare corpo a questa metafisica del quotidiano è la fotografia di Slawomir Idziak: gialli, verdi e rossi caldi filtrano l’immagine come attraverso un vetro colorato; riflessi, specchi, superfici in trasparenza moltiplicano i piani e alludono a presenze fuori campo. La macchina da presa, soggettiva con Weronika e più “esterna” con Véronique, crea l’impressione che qualcuno — un doppio? uno sguardo “altro”? — osservi la giovane francese, spostando il film verso una dimensione quasi spirituale senza mai dichiararla. In questa stessa logica di echi e duplicazioni si inseriscono i dettagli: l’incontro con il marionettista Alexandre (Philippe Volter) attraverso un riflesso, la storia della ballerina che diventa farfalla, una cassetta e un cordoncino recapitati come indizi, oggetti-soglia che trasformano il caso in destino.
Irène Jacob, premiata a Cannes nel 1991, costruisce due personaggi che sono “lo stesso ma diverso” senza ricorrere a effetti vistosi: bastano il respiro, una postura, il modo di sorridere o di farsi attraversare dalla musica per distinguere la vitalità luminosa di Weronika dal dolore assorto di Véronique. È un’interpretazione di rara finezza, capace di far sentire allo spettatore la densità di un’esperienza che si muove tra corpo, intuizione e memoria, prima ancora che tra parole e azione.
La colonna sonora di Zbigniew Preisner, con la sua coralità “antica” e la malinconia delle linee melodiche, agisce come una memoria che riaffiora: segnala corrispondenze, richiama fantasmi, fa vibrare il non detto. È la musica a cucire i due mondi, a restituire quella percezione ineffabile che in Kieslowski passa spesso per la grazia, per l’istante in cui la realtà si rivela senza bisogno di spiegazioni. Così La doppia vita di Veronica diventa una meditazione sull’ascolto: dei segnali che ci attraversano, degli altri che ci abitano, dei desideri che chiedono di essere riconosciuti o lasciati andare.
Il film è anche una soglia nella carriera del regista: ponte tra la stagione polacca e la fase francese, anticipa in filigrana temi e forme che troveranno compimento in Tre colori: Rosso. Qui l’idea di “vite incrociate”, coincidenze rivelatrici e responsabilità invisibili prende una forma più lirica, meno narrativa, affidata ai segni: una fotografia, un gesto che si ripete, un raggio di luce che resta in una stanza quando la sua fonte è scomparsa dal quadro. Non è realismo magico: è un senso del mondo in cui libertà e caso si intrecciano, e in cui l’etica abita nelle decisioni intime — smettere di cantare, fidarsi di un incontro, seguire un presentimento.
Nella sua parte francese, il film si fa anche romanzo d’educazione sentimentale: Véronique impara a leggersi attraverso tracce, a dare un nome alla propria inquietudine, a scegliere il tipo di amore che desidera. Kieslowski la guida con discrezione, evitando il moralismo e la psicologia esplicativa. Preferisce la concretezza dei segni — una scatola di sigari, una foto scattata in piazza, un nastro che suona come un ricordo che non si sa di avere — e lascia allo spettatore la libertà di un’interpretazione aperta.
Se La doppia vita di Veronica è diventato un classico del cinema europeo non è per la teoria che sottende, ma per come la traduce in esperienza sensoriale e affettiva. La luce che trapassa i tendaggi, l’oro che impasta l’aria, il respiro che si ferma su una nota: tutto concorre a rendere visibile l’invisibile, a dare una forma al «se» che abita le nostre vite. A distanza di oltre trent’anni, il film non offre risposte: ci insegna piuttosto a riconoscere le domande giuste. E a intuire che, a volte, amare significa anche custodire la vita che non abbiamo vissuto.
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