A più di vent’anni dall’uscita, La stanza del figlio conserva intatta la sua forza emotiva: è un film che affronta il lutto con una sincerità disarmante e che, nel suo ultimo, indimenticabile piano sulla spiaggia, mostra come una famiglia distrutta provi a muovere un passo verso il futuro pur sapendo che nulla tornerà più com’era. In quella camminata incerta, osservata attraverso lo sguardo di un’estranea, c’è l’essenza del film: la consapevolezza che il dolore non si supera, ma si impara appena a convivere con esso.
Il cinema di Nanni Moretti ha sempre un legame sotterraneo con la sua biografia. Fin dagli anni di Caro diario e Aprile, l’autore intreccia vita privata e creazione artistica, trasformando malattie, paure e attese in materia narrativa. La stanza del figlio nasce proprio in quel solco: Moretti concepisce il soggetto dopo Caro diario, ma lo accantona perché sta per diventare padre. Il progetto torna a galla solo più tardi, quando l’idea di raccontare la perdita di una persona amata diventa per lui un pensiero più urgente, quasi inevitabile. Con l’aiuto di Heidrun Schleef e Linda Ferri, costruisce una sceneggiatura che non ha nulla di autobiografico, ma che porta con sé un interrogativo profondamente personale: come si sopravvive alla scomparsa di un figlio?
La risposta passa attraverso Giovanni, psicoanalista di provincia interpretato dallo stesso Moretti. È un uomo abituato ad ascoltare e a dare forma al dolore degli altri, rifugiandosi nella razionalità della parola e della scienza. A casa lo aspetta una famiglia tranquilla, una quotidianità ordinaria, un equilibrio fondato su piccoli riti: la colazione insieme, le sedute in studio, le passeggiate in città con un misto di curiosità infantile e distacco adulto. Moretti costruisce con precisione questa normalità: la figlia che torna da scuola, la moglie che lavora in biblioteca, il figlio adolescente coinvolto in una banale accusa di furto, subito risolta. Tutto sembra scorrere senza traumi, come se nulla potesse minacciare quella calma.
Finché una domenica, a causa di una chiamata urgente di un paziente, Giovanni rinuncia a una corsa programmata con il figlio Andrea. È una scelta minima, quasi insignificante, che però segna un punto di rottura: Andrea va al mare con gli amici per una sessione di immersioni e non fa più ritorno. La morte improvvisa del ragazzo spacca la famiglia e manda in frantumi il sistema di certezze su cui Giovanni ha costruito la sua identità. La razionalità, da sempre il suo strumento di lettura del mondo, diventa improvvisamente inutile.
Moretti racconta questo smarrimento con una delicatezza rara. La macchina da presa segue Giovanni con discrezione, gli resta addosso, registra ogni sussulto emotivo senza forzare nulla. Non ci sono melodrammi, né grandi sfoghi: c’è solo la quotidianità svuotata del dopo, la frattura silenziosa che trasforma la casa in un luogo estraneo. Il padre cerca spiegazioni nell’attrezzatura da sub, come se un dettaglio tecnico potesse riavvolgere la tragedia; prova a cercare conforto nella religione, ma esce dalla chiesa più arrabbiato di prima; immagina scenari alternativi in cui, non andando dal paziente, avrebbe forse salvato Andrea. Sono tentativi vani, strumenti che non funzionano più.
Il film suggerisce anche che il caso, e non una logica superiore, governa gli eventi: mentre Andrea entra in acqua, la sorella guida incautamente in moto con gli amici, Giovanni rischia un incidente distratto da un foglio con un indirizzo. Tutti sfiorano il pericolo, come se l’imprevisto fosse sempre in agguato e la vita, pur senza colpa, potesse precipitare in qualsiasi momento.
Quando non resta più spazio per le spiegazioni, La stanza del figlio si concentra sulla routine del lutto. Ogni gesto quotidiano si rompe: la madre inizia a trattenersi al lavoro, la figlia passa le serate fuori, la cena insieme non esiste più. In una delle scene più amare, Giovanni prepara il pasto per tutti, ma finisce per mangiare da solo un pezzo di formaggio in cucina. La famiglia si disintegra in tanti dolori privati, incapace di condividere ciò che la travolge.
È in questo punto di massima fragilità che entra in scena Arianna, una ragazza che ha conosciuto Andrea durante l’estate e che appare attraverso una lettera arrivata alla loro casella postale. La sua presenza spalanca una finestra su una parte della vita del figlio rimasta nascosta ai genitori: i suoi sentimenti, la sua timidezza, la sua camera piena di foto e ricordi che ora sembrano parlare un linguaggio nuovo. Per la madre è una tentazione: seguire questa giovane sconosciuta significa restare ancora per un attimo vicina a Andrea. Ma significa anche ammettere, finalmente, che quel legame si è spezzato per sempre.
L’arrivo di Arianna e del ragazzo che viaggia con lei porta alla scena più straziante del film: la famiglia la accompagna alla frontiera perché nessuno si ferma a darle un passaggio, diventando così parte attiva del distacco. È un gesto simbolico, un sacrificio doloroso che conclude l’ultimo filo che li legava al figlio. Il piano successivo – lo sguardo di Arianna che dall’autobus osserva Giovanni, Paola e Irene camminare sulla spiaggia, distanti ma uniti da una nuova forma di solidarietà – è una delle immagini più potenti del cinema di Moretti.
La musica accompagna questa trasformazione. All’inizio, una canzone di Caterina Caselli sottolinea l’armonia familiare. Nel finale, By This River di Brian Eno restituisce la malinconia individuale di ciascuno e, al tempo stesso, il primo timido movimento verso la vita esterna. Per la prima volta, la famiglia ride. Non perché stia meglio, ma perché il mondo ricomincia a filtrare attraverso le crepe del dolore.
La stanza del figlio non pretende di offrire risposte, né cerca di addolcire l’esperienza del lutto. Moretti evita ogni retorica, sceglie uno stile asciutto e rigoroso, e proprio attraverso questa essenzialità riesce a raccontare la complessità delle emozioni umane. Nel 2001 la Palma d’Oro a Cannes consacra il film come una delle opere più profonde del cinema italiano contemporaneo.
Riguardato oggi, resta una meditazione straordinariamente sincera sulla perdita e sulla fragilità della famiglia, una storia che continua a colpire per la sua capacità di parlare a chiunque abbia conosciuto il dolore. Un film che, come quel piano finale, non chiude davvero nulla: semplicemente, invita a trovare un modo per continuare a camminare.


