La trincea è un altopiano di pietra, il tempo è sospeso, l’ordine è assurdo. In Uomini contro (1970) Francesco Rosi mette in scena la guerra come macchina istituzionale di follia, dove l’eroismo è un alibi e la disciplina diventa un linguaggio di morte. Ispirandosi a Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu, il film segue un reparto italiano sul fronte della Prima guerra mondiale: da un lato il generale Leone (Alain Cuny), custode di una strategia arcaica e spietata; dall’altro il tenente Sassu (Mark Frechette), che guarda i soldati disfarsi sotto ordini impossibili e inizia a mettere in discussione il senso stesso del comando.
Rosi non filma la battaglia come spettacolo, ma come rituale burocratico. Le missioni suicide – i soldati mandati in pieno giorno a tagliare il filo spinato sotto le mitragliatrici, l’idea grottesca di proteggere gli uomini con armature medievali – fanno emergere l’oscenità dell’obbedienza quando diventa fine a sé stessa. La fotografia di Pasqualino De Santis avvolge tutto in un pulviscolo di fumo e crepuscolo, i boati lontani diventano un respiro meccanico che non molla mai la presa: più che ricostruire, il film evoca. Il fronte non è un luogo, è uno stato mentale.
Nel cuore della storia c’è lo scarto tra le parole del potere e i corpi degli uomini. I soldati non sono codardi né eroi: sono persone trascinate in un ingranaggio dove la sola vera scelta è tra la morte in avanti e la morte all’indietro. Rosi li osserva senza paternalismi, rifiuta l’enfasi e lavora per attrito: dettagli, attese, gesti minimi che smascherano l’ideologia del sacrificio. Quando l’ufficio svuota il cassetto di un caduto separando gli oggetti “dell’azienda” da quelli “dell’uomo”, la guerra rivela il suo volto più amministrativo: si contano non vite, ma posti.
Contrariamente al mito che lo vorrebbe “solo” cinema politico, Rosi costruisce qui un discorso morale. La lunga conversazione finale tra Leone e Sassu, lontano dal fragore delle armi, è la chiave: non è un duello di tesi, è il punto in cui l’istituzione confessa la propria cecità e il giovane ufficiale riconosce l’impossibilità di trovare senso nel sangue. È anche il momento in cui il film, così fisico fino ad allora, si fa astratto: la guerra non è più il 1916 sull’Isonzo, è ogni guerra che chiede obbedienza in cambio di nulla.
All’uscita, Uomini contro divide, scandalizza, viene accusato di infangare l’esercito. Oggi, proprio per questo, resiste: perché non consola, non pacifica, non offre scorciatoie di redenzione. È un cinema che disumanizza per denunciare la disumanizzazione, che mostra come la retorica dell’onore serva a coprire una contabilità di perdite. E nel rivederlo, mentre la storia ripete gli stessi errori con nomi diversi, quel fruscio di carte, quel fumo che inghiotte l’orizzonte, quel passo che esce dalla trincea sapendo già com’è scritto il finale, parlano al nostro presente con una chiarezza che fa male.
La forza del film non sta solo nelle immagini: sta nel montaggio di Ruggero Mastroianni che incastra l’assurdo nella routine; sta nella musica di Piero Piccioni che non cerca di nobilitare, ma di incidere; sta nella produzione coraggiosa di Marina Cicogna che rende possibile un’opera fuori dal coro. Ma soprattutto sta nello sguardo di Rosi, che rifiuta la retorica pacifista tanto quanto quella bellicista e sceglie la strada più difficile: guardare. Guardare come un generale trasforma gli uomini in procedure; come un tenente scopre che obbedire non coincide con essere giusto; come un plotone si muove verso il nulla per occupare una collina di sassi.
A oltre quarant’anni, Uomini contro resta un viaggio inquieto e visionario nella memoria collettiva del Novecento perché toglie alla guerra il prestigio della leggenda e le lascia il suo peso reale: ordine, rumore, polvere, paura. È un film che non cerca la lacrima, cerca la coscienza. E quando, finiti i colpi, resta solo il silenzio, ci chiede la cosa più scomoda: da che parte dell’ordine vogliamo stare?
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