Nel vasto panorama del cinema italiano, poche opere hanno saputo scuotere lo spettatore come certi titoli che ancora oggi evocano disagio e fascinazione. Negli anni Settanta e Ottanta, il nostro cinema non ebbe paura di spingersi oltre il limite della rappresentazione: da Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, feroce allegoria del potere e della violenza, a Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, accusato di oscenità e persino di reali omicidi sul set, il confine tra arte e scandalo venne più volte messo in discussione. In questa stessa linea di cinema estremo e disturbante si inserisce Antropophagus, film diretto nel 1980 da Joe D’Amato, che a quarantacinque anni dalla sua uscita resta una delle esperienze più controverse del nostro horror.
Girato con un budget minimo in 16 mm e poi gonfiato a 35, Antropophagus è nato in poche settimane tra Ponza, Sperlonga e le catacombe di Nepi, che nel film diventano l’isola greca dove si consuma l’incubo. D’Amato — all’anagrafe Aristide Massaccesi — ha firmato regia e fotografia, mentre la sceneggiatura è di Luigi Montefiori, qui accreditato come George Eastman, che interpreta anche il mostro. Nel cast compaiono Tisa Farrow, sorella di Mia Farrow, una giovanissima Serena Grandi accreditata come Vanessa Steiger e Margaret Mazzantini, all’epoca agli esordi come attrice.
La trama è quella di un classico “slasher mediterraneo”: un gruppo di turisti sbarca su un’isola apparentemente deserta, dove si nasconde un cannibale impazzito. Il mostro, un naufrago che per sopravvivere ha divorato moglie e figlio, è una creatura tragica quanto spaventosa. La vicenda procede tra sparizioni, omicidi e visioni sempre più macabre fino alla scena più famosa — e censurata — in cui la vittima incinta, interpretata da Serena Grandi, viene sventrata e il feto divorato dal mostro. Per realizzarla, la produzione usò un coniglio morto con intestini finti, ma la leggenda sul “realismo” dell’effetto contribuì al mito del film.
Antropophagus venne bandito in Gran Bretagna come “video nasty” e proiettato in molte versioni tagliate. D’Amato stesso lo definì «il film più economico»della sua carriera, ma anche uno dei più ricordati. Negli anni è diventato un cult del gore italiano, amato e detestato in egual misura. Su IMDb, un utente scrive: «L’antropofago è uno dei cattivi più intimidatori che abbia mai visto, ma il film soffre di troppe scene in cui non accade nulla». Un altro lo definisce «un film dal ritmo lento, ma con momenti di autentica tensione e interpretazioni credibili, soprattutto di Tisa Farrow e George Eastman». Su Letterboxd, un commento recita: «Si percepisce un’atmosfera cupa e malinconica, ma il film si trascina troppo a lungo; resta però uno dei più scioccanti mai girati in Italia».
Oggi, a distanza di quarantacinque anni, Antropophagus resta un’esperienza disturbante, capace di evocare un’idea di orrore fisico e mentale che pochi film hanno saputo eguagliare. Nonostante il suo ritmo irregolare e la povertà di mezzi, continua a esercitare un fascino perverso: quello di un cinema che non cercava la perfezione, ma la vertigine del proibito. Un film che, come pochi altri, dimostra quanto il nostro horror seppe — e forse osa ancora — guardare nell’abisso.
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