A 40 anni dalla sua uscita, questo film resta la più potente elegia sulla guerra e sullinfanzia

A quarant’anni dalla sua uscita, Arrivederci ragazzi resta la più potente elegia sulla guerra e sull’infanzia. Presentato nel 1987 e ispirato a un trauma personale di Louis Malle, il film racconta con pudore e nettezza l’amicizia tra Julien, allievo di un collegio cattolico vicino Parigi, e il nuovo compagno Jean Bonnet, che in realtà si chiama Kippelstein ed è un ragazzo ebreo nascosto dai padri. Non c’è retorica né ricatto emotivo: Malle filma la fine dell’innocenza con una regia asciutta, una fotografia terrosa, musica ridotta all’osso. L’intimità dello sguardo infantile diventa lente morale: non assolve, non spiega, non semplifica. Testimonia.

Il punto di partenza è un episodio reale vissuto dal regista nel gennaio 1944. In Arrivederci ragazzi quel ricordo si condensa in un’immagine incancellabile: il corridoio, la porta, il passo esitante di Jean trascinato fuori campo, inghiottito dalla macchina di morte. Subito dopo, il vuoto. È il momento in cui il cinema ha il dovere di fermarsi: non può restituire l’orrore, può solo fissarne l’impronta sulla coscienza. Per arrivare lì, Malle costruisce un tessuto di gesti quotidiani: il freddo nelle camerate, il pane razionato, le sirene, le lezioni spostate in cantina durante gli allarmi, i giochi su trampoli in cui i bambini si fingono cavalieri senza macchia. Piccoli rituali per tenere la guerra ai margini, almeno finché la realtà non bussa alla porta.

La scelta decisiva è lo sguardo “a misura di bambino”. La guerra rimane spesso fuori campo, ma la sua pressione è concreta, fisica. La macchina da presa sta ad altezza di Julien, sonda corridoi stretti, spazi condivisi, silenzi imbarazzati. Due momenti, tra i tanti, raccontano la grammatica morale del film. Nel rifugio, durante un allarme, la luce salta: la camera indugia su Jean che non prega. È un dettaglio che parla a chi osserva davvero. Più avanti, la comunione negata – l’ostia ritratta dal sacerdote, la bocca di Jean che resta vuota – visualizza l’impossibilità di confondersi con gli altri per salvarsi. In mezzo, sguardi, esitazioni, un’amicizia che nasce per tentativi, tra curiosità e vergogna, fino a farsi patto muto.

Arrivederci ragazzi dialoga con tutta la filmografia di Malle, regista spesso etichettato come “eclettico” ma in realtà fedele a una stessa ossessione: smontare miti e autoassoluzioni. Come in Lacombe Lucien, l’Occupazione non è il fondale per un racconto edificante: è un dispositivo che misura, senza proclami, le responsabilità individuali. Il padre Jean incarna un coraggio concreto, privo di enfasi; altrove prevalgono paura, opportunismo, piccoli tradimenti quotidiani. E nel mezzo ci sono i ragazzi, costretti a crescere in fretta, a capire cosa significa scegliere. Anche Julien non è un eroe. Spia, sbaglia, scopre, e solo allora apprende. Malle inserisce un dettaglio finzionale – lo sguardo che involontariamente segnala Jean ai nazisti – per dare forma a una colpa che non si lava via. Non basta non sentirsi responsabili per non essere coinvolti.

La forza del film sta anche nella sua concretezza formale. La fotografia di taglio naturalista, l’uso del fuori campo per la violenza, la direzione di giovani interpreti spesso non professionisti restituiscono una spontaneità senza manierismi. La cultura – un libro passato sottobanco, un pianoforte a quattro mani suonato di nascosto durante un bombardamento – diventa atto di resistenza. Persino gli stereotipi di classe vengono incrinati: la battuta della madre di Julien, le frasi dei compagni, i tic di un ambiente borghese che continua i propri affari “come se nulla fosse” disegnano un paese scisso tra coscienza e convenienza.

Rivederlo oggi significa accorgersi di quanto Arrivederci ragazzi sia un film sul presente. Non perché cerchi parallelismi forzati, ma perché ribadisce un principio semplice e scomodo: la responsabilità individuale esiste dentro i grandi ingranaggi. Il gesto che salva una vita e quello che la espone alla delazione passano dalla stessa soglia, quella della scelta. Malle non addolcisce nulla, nemmeno l’ultimo fotogramma: dopo l’addio, la scritta “fine” arriva come una lapide. Nessuna pacificazione, solo la necessità della memoria.

Il segreto della sua tenuta sta proprio in questa combinazione di pudore e lucidità. Il film non catechizza e non sermoneggia; semmai, allena lo sguardo a riconoscere il confine mobile tra coraggio e viltà, tra amicizia e paura. È cinema morale fatto di dettagli, non di tesi; di omissioni, non di chiose; di volti che impari a conoscere prima ancora di capirli. E quando il racconto sembra farsi “piccolo”, stretto nelle mura del collegio, la Storia entra da una fessura e lo dilata. È allora che capiamo perché, a distanza di quarant’anni, Arrivederci ragazzi non ha perso un grammo di potenza: perché non si limita a commemorare, ma chiede un impegno. Quell’“arrivederci” sussurrato nel titolo non è solo il saluto all’infanzia perduta; è la promessa – fragile, ma necessaria – di non dimenticare come ci si diventa umani.

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