Quando uscì nel 1998, Vampires di John Carpenter venne accolto con freddezza da pubblico e critica. Troppo cupo per essere un semplice film d’azione, troppo ironico per essere preso sul serio come horror puro, e troppo “fuori dal tempo” in un’epoca dominata dai blockbuster digitali. Eppure, a distanza di ventisette anni, questo ibrido tra western e horror gotico si rivela come una delle opere più personali e coerenti del regista di Halloween e La Cosa, un film che merita di essere finalmente rivalutato come uno dei capitoli più audaci e consapevoli della sua carriera.
Il film segue Jack Crow (interpretato da un irresistibile James Woods), capo di una squadra di cacciatori di vampiri finanziata dalla Chiesa. Il loro compito è eliminare le covate di non morti che infestano il deserto del New Mexico, una terra sospesa tra mito e rovina. Carpenter trasforma l’America profonda in un far west apocalittico, popolato da cowboy armati di crocifissi e pick-up invece che di cavalli. È una dimensione familiare e decadente, dove la religione si mescola con la violenza e la fede diventa un atto disperato di sopravvivenza.
Quando Jack e i suoi uomini abbattono un intero nido di vampiri, la vittoria dura poco: dietro di loro si nasconde Jan Valek (Thomas Ian Griffith), un antico vampiro assetato di vendetta, deciso a portare a termine un rituale che potrebbe renderlo invincibile. Da qui inizia una caccia spietata che alterna sparatorie, agguati e momenti di autentico orrore, in un equilibrio perfetto tra azione fisica e terrore viscerale.
Come spesso accade nel cinema di Carpenter, la superficie pulp nasconde una riflessione più profonda. Vampires è anche una storia di uomini disillusi, di antieroi che combattono battaglie già perdute, mossi più dall’abitudine che dal coraggio. Jack Crow è il prototipo del “carpenteriano puro”: un solitario che non crede più nei miti che lo hanno plasmato, ma continua a lottare contro il buio perché non conosce altra strada.
Il film è attraversato da un’energia ruvida, quasi rock, sostenuta dalla colonna sonora blues composta dallo stesso Carpenter, che accompagna le scene d’azione con il ritmo di una ballata infernale. Il regista mantiene uno stile asciutto, essenziale, privo di effetti superflui, concentrandosi invece sulla fisicità dei corpi, sulle ombre e sulla tensione. Ogni sequenza, dalle imboscate nel deserto alle lotte nel motel, è costruita con una precisione che testimonia l’artigianalità del suo cinema, lontano anni luce dalle derive digitali di fine anni ’90.
Oggi, con la distanza del tempo, Vampires appare come un’opera di transizione e di sintesi: un film che guarda al passato del genere ma anticipa, con sorprendente lucidità, molte delle contaminazioni che diventeranno centrali negli anni Duemila. È un horror western che fonde mito e sangue, religione e sopravvivenza, western crepuscolare e apocalisse.
Riscoprirlo significa tornare a un cinema fatto di ritmo, tensione e libertà, capace di mescolare la brutalità del B-movie con la malinconia del grande racconto americano. Un film sporco, ironico e insieme malinconico, che conferma quanto John Carpenter, anche nei suoi momenti meno celebrati, resti uno dei pochi registi in grado di trasformare l’inferno in arte.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


