Ruth Goller: Guns of Brixen

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Nella grande età d’oro che il jazz britannico ha avuto negli ultimi anni pesa non poco la mano di un talento nostrano, anche se ben mimetizzato nella scena londinese. A cominciare dal nome, che non lascia intendere grosse parentele con il panorama italiano: Ruth Goller, che l’onomastica vorrebbe più facilmente geolocalizzato in Germania, al più proprio in Regno Unito, che sul nostro stivale. E in effetti non è una presupposizione così sbagliata: Ruth viene dall’Alto Adige – terra che ha avuto un interessante scena punk/metal nel corso degli anni ’80 e ’90, come vi raccontavamo qua –, per la precisione da Bressanone, quindi è germanofona al 100%. Lo si sente durante la nostra chiacchierata, con il suo ottimo italiano che lascia trasparire un leggero accento tedesco.

Dopo aver finito le scuole in Italia, Ruth non ci ha pensato due volte ed è partita per Londra, dove vive da circa 25 anni. È lì che ha casa, anche se per buona parte dell’anno è in tour con i vari progetti con cui collabora. Dopo l’esperienza con gli Acoustic Ladyland, Ruth suona regolarmente con musicisti come Alabaster DePlume, sassofonista inglese tra i più apprezzati negli ultimi anni, o Shabaka Hutchings e Tom Skinner, entrambi membri dei Sons of Kemet – senza contare la pazzesca carriera solista del primo e l’essere parte dei The Smile assieme a Thom Yorke e Johnny Greenwood il secondo – e parte del collettivo punk jazz Melt Yourself Down, come Ruth. Nell’elencone della sue collaborazioni ci sarebbe anche un certo Paul McCartney, con cui ha condiviso il palco una volta, ma ci arriviamo poi.

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Al netto di questo namedropping poco elegante, ma utile a dare un quadro della notevolezza del suo percorso, Ruth ha da qualche tempo anche iniziato a pubblicare dischi a suo nome. Il primo è Skylla, pubblicato nel 2021, a cui è seguito Skyllumina, uscito invece negli scorsi mesi e eletto disco del mese dal Guardian a marzo. Sono due album dalle ambientazioni sonore simili, dove al centro ci sono il basso, suonato molto giocando sugli armonici e su accordature strane, e le voci, registrate come layer spezzati e manipolate di modo che le sovrapposizioni tra le note generino accordi diversi. La differenza principale tra i due sta in un dettaglio: le percussioni. Nel primo l’elemento ritmico è praticamente annullato, mentre in Skyllumina è esasperato, al punto che in ogni traccia suona un batterista diverso con totale libertà improvvisativa, in un certo senso ribaltando la concezione che vorrebbe la batteria come strumento d’accompagnamento.

Nel suo girovagare spesso in tournée, Ruth sarà in Italia il 25 e il 26 settembre per due concerti, rispettivamente a Milano, allo Spazio 89, e a Firenze per il Genius Loci Festival, promosso dall’Associazione Controradio Club, dall’Opera di Santa Croce e da Controradio. Vista l’occasione, abbiamo contattato Ruth per farci raccontare la sua storia.

Cominciamo dall’inizio: com’è stato il tuo percorso musicale in Italia?

Sono cresciuta nel giro punk rock locale, quando ero alle superiori suonavo in questo gruppo che si chiamava Stuff and Nonsense. C’era un sacco di metal e di punk rock in zona, io ho sempre suonato anche strumenti diversi prima di concentrarmi sul basso. Poi a Bressanone c’era un centro giovanile che ogni anno organizzare un progetto per cui ci davano a disposizione una saletta da usare quando volevamo, dopodiché una volta all’anno ci mandavano in sala di registrazione per registrare una compilation con altri 5 gruppi. È stato molto bello, era la mia prima esperienza di quel tipo.

Ruth Goller – foto di Zak Watson

Come e quando sei finita a Londra?

Subito dopo la maturità avevo molto chiaro che volevo fare musica e nello specifico suonare il basso. Siccome l’Alto Adige è piccolo, era chiaro che dovessi spostarmi. Tutti i miei amici si muovevano tra Italia, Austria e Germania, io avevo bisogno di immergermi in una cultura diversa. Londra è stata un po’ un caso, ci sono finita perché conoscevo un amico di un amico che stavo là. Là ho provato a iscrivermi alla London Music School, ho mandato una cassetta come provino per farmi prendere in cui suonavo col mio gruppo, una sorta di test d’ingresso. Non so come, mi hanno preso (ride, ndr). Avevo bisogno di studiare, conoscevo i miei limiti, visto che non sapevo niente di armonia e non ero in grado di leggere uno spartito. Ho fatto questa scuola per un anno, ogni giorno dalle 9 alle 19. Avevo un insegnante che si chiama Nico Gomez, molto bravo con cui sono ancora in contatto. È da lì che ho imparato a scoprire stili diversi e generi musicali da tutte le parti del mondo. Poi sono passata al corso musicale alla Middlesex University, dove mi sono concentrata su jazz e improvvisazione. 

Dagli studi come ti sei avvicinata ai primi palchi londinesi?

Io sono una persona abbastanza curiosa e aperta, avendo studiato avevo già un gruppo che voleva fare più o meno stesse cose. A Londra se non hai un punto di ingresso diventa molto difficile iniziare a suonare, per me l’aver fatto l’università ha reso il passaggio più facile. Una volta che suoni, sei dentro.

In questi anni il tuo percorso musicale si è evoluto parecchio. Come hai trovato il “tuo” suono?

Io sono nata nel punk e sono finita nel jazz tradizionale, tanto che quando studiavo ero molto concentrata sul jazz ma non ero molto felice, pensavo di dover concentrarmi su quel genere, ma non so perché. Ero sempre attaccata al basso elettrico, ai suoni, ai pedali, non capivo ancora bene che potevo mettere le cose insieme. Poi ho fatto amicizia con gli Acoustic Ladyland, era un periodo molto interessante perché era il momento in cui stava nascendo il punk jazz. Loro sono molto bravi a fare improvvisazione, mi hanno fatto vedere che potevo incrociare mondi diversi e che c’era un linguaggio ibrido in cui potevo esprimermi. Tramite loro soprattutto ho sviluppato questa personalità mia fino a trovare la mia voce. 

E a suonare con Paul McCartney come ci sei finita?

È una cosa che viene spesso messa in risalto, ma ci ho suonato solo una volta durante un concerto (ride, ndr). Era il 2012 ed ero nella band di Rokia Traoré, per la data di Londra era previsto che sul palco salissero anche lui e John Paul Jones dei Led Zeppelin. Non pensavo di suonare visto che c’erano loro, ma Rokia mi fa: “Ma tu sei l’unica che conosce le canzoni!”. Quindi sul palco c’erano loro due davanti a me, ogni tanto si giravano per chiedermi cose come: “Ma in che tonalità è questa canzone?”. Penso che a nessun bassista sia mai capitato di suonare con loro insieme (ride, ndr).

In Italia passi spesso? Hai mai pensato di tornare qua?

Vado spesso in Alto Adige, anche nel resto d’Italia mi capita di passare. In Italia la situazione musicale non è ideale, anche in Inghilterra, a dir la verità, ma al momento sono stabile qua. Vivo a Londra da 25 anni, poi per quanto giro in realtà casa è un po’ ovunque. 

È complicato suonare fuori dall’Inghilterra dopo la Brexit?

Io sono più fortunata perché ho il passaporto italiano, quindi posso viaggiare, quando ho concerti col mio gruppo dove tutti sono inglesi è più complicato. L’anno scorso ho fatto 150 concerti, di cui 10 in Inghilterra e il resto in giro per il mondo: se avessi il passaporto inglese non potrei vivere qui, perché con quello c’è un massimo di 60 giorni di permanenza in UE. In generale fare concerti nel resto d’Europa è diventato proprio difficile, ci sono extra-tasse e extra-burocrazia che complicano le cose.

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Com’è nato il tuo ultimo album Skyllumina?

Il mio primo album solista, Skylla, era arrangiato solo con voci e basso. Per il secondo disco volevo mantenere un’ambientazione simile, aggiungendoci però qualcosa. Siccome sono bassista a me piacciono i batteristi, quindi ho deciso di aggiungere batterie e percussioni a suono determinato, come il vibrafono. All’inizio volevo una persona sola, solo che avevo così tanti nomi in testa che non riuscivo a scegliere. Quindi ho deciso di chiedere a 9-10 batteristi diversi: a ciascuno ho mandato la registrazione delle voci e del basso chiedendo di farmi tre take diverse, tra cui una molto rumorosa e una più silenziosa, così poi da poter scegliere quella più adatta. Volevo che il ruolo della batteria fosse più improvvisato, è tutto per creare una base di suono.

Come hai trovato questo modo di comporre?

È successo per caso. Il primo disco è venuto fuori da una collaborazione per una playlist di musica nuova, in cui avrei dovuto mandare ogni mese un nuovo pezzo. È successo che il giorno prima della deadline ero in tour e non avevo ancora niente di pronto. Ho tirato fuori il basso dalla custodia, ho iniziato a improvvisare con gli armonici e ho sentito che c’era una melodia forte che stava venendo fuori. A quel punto con la voce ho iniziato a cantare pezzi di melodia, per poi registrarli gli uni sopra gli altri di modo che venissero fuori gli accordi. Adesso scrivo così, seguo un percorso lineare, parto in un certo modo ma non so mai dove finisco. È un approccio che rivedo nella mia vita: quando cerco di fare qualcosa, meno ci penso e più spontanea esce.

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Dal vivo come porti questo disco?

La cosa comoda è che quando suoniamo dal vivo ho batteristi ovunque, è più pratico, c’è una persona in meno da far viaggiare. E poi così mi piace tantissimo perché non so mai cosa succederà sul palco, mantiene il disco fresco, fresco, vivo.

Il pubblico italiano come reagisce al tuo live?

Devo dire che, per quanto sia musica molto sperimentale, se lo spettatore è un minimo aperto a entrare a contatto con questo mondo la resa live funziona molto bene. Ogni volta che siamo venuti in Italia per festival o concerti in posti particolari come monasteri è stato sempre molto bello. Il fatto che sia molto incentrato sulla voce e sulla melodia chiunque riesce a trovarci qualcosa. Con tre cantanti sul palco, hai già vinto (ride, ndr). Poi capita che qualcuno esca, ma questo è un buon segnale: vuol dire che stai facendo qualcosa di radicale. È importante che i musicisti lo facciano.


L’articolo Guns of Brixen di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2024-09-19 12:00:00



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