Nella serie sugli 883 sono una via di mezzo tra Johnny Depp e Fracchia

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Le prime due date – Pavia e Monza – sono andate sold out, come il (non) collega Max Pezzali con gli stadi. Poi si prosegue con decine di altri show, su e giù per l’Italia, fino alla prossima estate. È Alla ricerca dell’uomo ragno, spettacolo teatrale creato da Mauro Repetto, ideatore e co-fondatore degli 883. Un one man show dove Mauro si trova a interpretare sé stesso, cantare le hit che ha contribuito a scrivere, fare rivivere un’epoca.

Tutto questo mentre il “mondo” non smette di parlare di loro. La serie Skyche ripercorre gli esordi del duo Pezzali-Repetto sta facendo numeri impressionanti, con enorme buzz anche online, dove pare non si parli d’altro. Dopo essere andati a teatro a goderci il suo spettacolo, abbiamo fatto una telefonata a Mauro a Parigi, dove vive da tanti anni, per capire come sta vivendo questo momento dove è protagonista ovunque, sul palco e in tv (per interposta persona). 

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La cosa più assurda è che lo spettacolo che hai tenuto nelle scorse settimane è stata la prima esibizione della tua vita a Pavia, la tua città. Nemmeno ai tempi degli 883 era mai capitato?

Mai, le prime cose le facemmo a Milano. A Pavia mi sono esibito sempre e solo al bar con gli amici. Che ha tutto perfettamente senso perché il mio spettacolo è proprio quello: una cosa fatta per gli amici, un po’ come se fossimo al bar.

Che effetto ti ha fatto esibirti su quel palco?

Un effetto meraviglioso, l’emozione di rivedere tanti amici e di aver radunato tre generazione di concittadini sotto il palco. Questa cosa della transgenerazionalità è sempre stata la cifra degli 883, e sono contento non smetta di funzionare così. 

Che rapporti avevi da ragazzo con il teatro?

Un rapporto pessimo. Da ragazzo, alle medie, andavo proprio al Fraschini, dove ho fatto la prima del mio show, e non vedevo l’ora di scappare fuori a mangiarmi qualche merendina di quelle molto chimiche. Da un lato c’era la felicità di non essere a scuola, dall’altro tanta tanta noia. Con il tempo ho imparato ad apprezzarlo, e a farmi un’idea mia di teatro.

E com’è il teatro di Mauro Repetto?

È quella celebrata dal primo Jovanotti in È qui la festa. La celebrazione di un unione, della gioia di stare assieme, un mix di musica, parole, risate, voglia di divertirsi. Non a caso il mio teatro, più che dei classici, risente delle mie esperienze da animatore turistico a Marilleva in Trentino oppure in Calabria. La mia vita oggi sembra quella di quando avevo 18 anni e giravo per villaggi turistici, chiedendo a Max di aiutarmi a scrivere i testi delle mie parti negli spettacoli serali.  

Qual è la cosa che ti colpisce di più del teatro?

Il profumo. Ricordo una volta a Parigi, dove mi trovo anche adesso, che andai a vedere A Bronx Tale, musical prodotto a Broadway da Robert De Niro. Ero in prima fila e potei sentire l’odore, forte e buonissimo, dell’attore sul palco. Ecco, in queste date mi è capitato il contrario. Ho sentito l’odore delle persone nelle prime file. Questo ti aiuta moltissimo a calarti nella parte, e non sarebbe possibile in nessun altro contesto. È quella faccenda della quarta parete…

Chi o cosa guardi quando sali sul palco? 

Faccio una panoramica immediata di una decina di persone, che per me rappresenteranno un test e una sfida allo stesso tempo. Cerco di fare in modo che ne facciano parte sia fan sia altri più scettici, persone che sulle prime note dello spettacolo, quelle di Sei un mito, non muovono nemmeno un dito. Io devo conquistare loro. E devo fare in fretta, perché così si godranno lo spettacolo. Per fortuna ci riesco quasi sempre. 

Come ti prepari?

Mi alleno. Negli anni ’80 avevo scoperto che Springsteen faceva palestra prima dei tour e non capivo che senso avesse. Mi pareva non ce ne fosse bisogno, che fosse un’esagerazione. Ora invece ho capito. L’artista che sale sul palco deve essere accordato come uno strumento, di testa e pure di fisico. 

Cosa stai capendo dell’Italia girandola per lo spettacolo?

Che non dovremmo lamentarci. Parigi peggiora di continuo, rispetto ad anni fa la vedo lasciata andare. In Italia c’è una bellezza diffusa che è incredibile, e mi pare che la cura nella maggior parte dei posti sia in crescita. Come negli anni ’90 mi era presa la malattia dell’American Dream, che fu quella che mi portò all’uscita dagli 883, ora sono affetto dall’Italian Dream. Sarà che sono stato tanto via, che Parigi ormai è casa mia. Ma ora ho più voglia che mai d’Italia, di girarla, vederla, celebrarla, raccontarla.

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Tu l’hai capita come funziona questa cosa della nostalgia su cui tutti dibattono ultimamente? 

Partiamo dalla nonna, visto che noi italiani siamo i più forti del mondo in tema di nonne. Tutti quando pensiamo a nostra nonna, riviviamo un momento arcadico, paradisiaco, tutto un “volemose bene”. La nostaglia è questa cosa qua, un’eterna madeleine proustiana. C’è idealizzazione, ma va benissimo così. È la sindrome della nonna.

Hai visto la serie su di voi?

Ho visto solo i primi tre episodi, che mi aveva girato tempo fa Max, prima dell’uscita. La trovo fatta molto bene, chiaramente è romanzata, è fiction mica un documentario sui castori. Un po’ caricaturale ma penso che colga bene lo spirito del tempo. 

Ma non ti avevano contattato per farne parte?

Ero stato contatto quattro anni fa circa dall’allora manager di Max, Pierpaolo Peroni, che mi chiedeva se fossi d’accordo. Io avevo detto di sì, come faccio sempre. Dico di sì a tutto, per forma mentis. Non avevo chiesto nessun diritto di sguardo, andava benissimo così. Sono uno spettatore come gli altri, e applaudo quello che hanno fatto. 

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Cosa nel pensi del tuo personaggio?

Credo che l’attore che mi interpreta abbia dato vita a un personaggio che mi è molto simile. Una via di mezzo tra Johnny Depp e Fantozzi, tra Mickey Rourke e Fracchia, se preferite. Sfigatissimo e fortissimo assieme. In effetti io sono sempre stato un po’ così, sia sul palco che nelle vita di tutti i giorni. Che poi è il motivo per cui gli 883 sono arrivati a tutti. 

Tu l’entusiasta e Max sempre compassato. Nella serie siete così, e nella realtà?

Direi che ci hanno preso bene, per quel che ho potuto vedere. Max sulle sue ma sempre geniale, io visionario ed eterna faccia tosta. 

A un certo punto vai “in crisi”. Non spoilero troppo sull’interpretazione che ne dà la serie, ma l’enfasi è su quel che accade sul palco. 

Il punto per me è questo. Io e Max non eravamo due colleghi, eravamo due amici che si sono trovati a vivere una cosa gigante grazie a Cecchetto. Ci siamo trovati su un palco e ci siamo dovuti inventare colleghi, e in questa dinamica ci siamo ritrovati a parlare di meno. Fino a tre giorni prima ci dicevamo di tutto, dalle ragazze a qualunque altra cosa ci passasse in mente: non c’erano segreti. In poco tempo siamo finiti a non parlare più nemmeno di quello che succedeva in scena.

Perchè?

Perché non c’era tempo, correvamo a milla all’ora. E improvvisavamo su tutto. Abbiamo fatto due album senza praticamente provare un minuto. Era tutto come veniva, senza rete. Max era concentrato sull’imparare a stare sulla scena, a cantare: sapeva di avere delle doti ma le doveva allenare. Io cercavo di imitare le coreografie di MC Hammer  o degli altri video che vedevo su MTV. Le imparavo solo nella mia testa, ovviamente. Questa cosa mi fa sorridere e allo stesso tempo mi spaventa del me di allora: mi sono letteramente buttato nella mischia. Se penso che oggi non fai nemmeno un passo senza averlo provato cento volte, studiato in ogni minimo dettaglio… Eravamo due specie di rapper, o almeno quella era la nostra idea. Ci siamo trovati nel pop un po’ per caso, e lo abbiamo fatto un po’ a caso. Ecco se c’è una cosa che spero la serie abbia restituito è questo: l’improvvisazione di tutta quella situazione. 


L’articolo Mauro Repetto: “Nella serie sugli 883 sono una via di mezzo tra Johnny Depp e Fracchia” di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-10-28 16:26:00



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