Ogni anno in Italia vengono uccise 300 persone. Il calcolo è approssimativo, di anno in anno possono essere 20 di più o 20 di meno, ma più o meno parliamo di un omicidio al giorno. Ci sono categorie molto colpite, soprattutto le donne che finiscono vittime di compagni o ex compagni. Ci sono casi che per vari motivi – la difficoltà a trovare il colpevole, alcuni particolari macabri o pruriginosi, la popolarità, la gioventù o magari la bellezza dei protagonisti, le motivazioni “particolari” del gesto – diventano casi mediatici ed entrano nell’immaginario collettivo, altri di cui si parla per un breve periodo e poi scatta la rimozione. E poi ci sono episodi di cui non sa nulla nessuno.
Quando Giorgia mi ha parlato per la prima volta di Stefano Daveti, la mia reazione è stata di incredulità. Com’è possibile che sia successa una cosa del genere (così grave, così tremenda) senza che che ne sapessi nulla? Perché non se n’è parlato in tutti i telegiornali per giorni? Perché l’immagine di quest’uomo (per altro potentissima) non è finita su tutti i quotidiani, i siti e i canali social? Non ho una risposta a queste domande.
Daveti aveva 63 anni, è stato ucciso a sprangate nella sua abitazione in un paesino dell’Appennino reggiano. Era il 25 giugno di quest’anno, la morte è arrivata dopo tre giorni di agonia in ospedale. Stefano era nato a Spezia, era un artista e aveva fatto il docente di arte (aveva vissuto per anni in Sardegna, qua il ricordo dei suoi alunni). Una decina d’anni fa aveva deciso di “ritirarsi” in una casa a Morsiano, frazione di Villa Minozzo, un paese nel mezzo dell’Appennino Tosco Emiliano non distante dal corso del fiume Secchia.
Faceva vita appartata. C’era chi diceva che fosse un tipo stravagante, nessuno che potesse definirlo un violento. Il 21 giugno avrebbe avuto una discussione animata con i vicini di casa, padre e figlio di 66 e 47 anni, al termine della quale sarebbe stato preso a sprangate e ucciso. Le dinamiche, e la motivazione, sono ancora tutte da chiarire. Qua c’è una primissima ricostruzione da parte di uno dei giornali che si occupano di quell’area, di fatto gli unici su cui sia approdata la notizia. Che, come detto, ha avuto pochissimo risalto.
Nei giorni successivi alla morte Stefano Daveti è stato ricordato con una fiaccolata al Favaro, il quartiere di Spezia dove è cresciuto, poi si sono tenuti i funerali a Villa Minozzo, che però, denunciano parenti e amici della vittima, sono stati disertati o quasi dalla comunità locale. Intanto sono in corso le indagini per capire cosa è accaduto, c’è stata l’autopsia e le ricerche di tracce nella casa, l’ex caseificio di Morsiano, da parte della scientifica. Padre e figlio sono accusati di omicidio volontario.
A ricordare Stefano e chiedere giustizia per lui oggi sono i due fratelli, Andrea e Renzo. Quest’ultimo è un nome noto per chi ama la musica. Il punk, in particolare. Renzo “Benzo” Daveti è stato il fondatore e la voce dei Fall Out, gruppo hardcore spezzino nato nel 1979, tra gli alfieri del cosiddetto “Granducato Hardcore”, un’ecosistema di gruppi, etichette e locali sorti negli anni ’80 tra Liguria e Toscana. Attivi fin nei 2000 inoltrati, i Fall Out hanno registrato numerosi dischi, fatto svariati concerti in giro per l’Italia e trovato commenti entusiasti da parte del mondo punk persino in California.
Renzo ha poi dato vita ad altri progetti come Fabbrica Illuminata, Gregorsamsa e Casamatta, oltre che al Kronstadt, primo centro sociale cittadino, organizzato eventi e gestito spazi, ha realizzato fanzine, agitato la scena. Fino a poco fa gestiva un’enoteca. La nostra conversazione con lui parte da qui, dalla sua visione della musica, e poi arriva al fratello. Di cui abbiamo sentito un grande bisogno di farvi conoscere la storia.
Quali sono i tuoi progetti musicali oggi?
Dopo l’esperienza conclusa nel 2010 con la pubblicazione di Humana Radio dei Casamatta, ora faccio partei di un gruppo che si chiama Autodafé e stiamo realizzando il primo lavoro discografico intitolato Odissea. Conterrà dodici tracce, una delle quali, Il Gigante, si può già trovare online.
Come nascono i Fall Out?
La prima formazione nasce nel 1979 e cambia nell’82, all’uscita del primo EP intitolato Fall Out. La formazione era: Marco alla chitarra, Beppe al basso e Gianpus alla batteria, io alla voce. Erano anni di fermento nei quali stava nascendo la scena anarcho punk italiana. Nello stesso periodo le lotte avevano portato all’occupazione di vari spazi autogestiti. In particolare il Virus a Milano, in via Correggio, che organizzò una delle più importanti manifestazioni, che si chiamava “Offensiva di Primavera”. Un libro che riassume quel periodo è un testo di Marco Philopat intitolato Costretti a sanguinare, pubblicato un pò di anni fa dalla casa editrice Agenzia x.
Quanti dischi avete fatto?
Con me alla voce abbiamo fatto il primo EP Fall Out, LP Mondo Criminale, Xenodrome, Neuropa e Invincibile Sporca Armada. E poi tantissimi live, quello che non scorderò mai è stato all’interno di un ex manicomio per una radio di Bologna che si chiamava Underdog.
Che posto era la Spezia degli anni ’80?
Negli anni ’80 era un luogo militarizzato, depresso, dove esistevano solo la Marina Militare e l’Oto Melara. Dopo varie occupazioni momentanee ci siamo stabiliti in una scuola sulle colline della città e chiamammo questo spazio Kronstadt, centro sociale autogestito. Si formò in seguito una rete di comunicazione tra i vari centri sociali e uscì una fanzine che si chiamava “Punkaminazione”.
Le fanzine erano una delle tue grandi passioni, tanto di crearne una con una delle figure chiave di quel periodo “agitato”.
Io e Gianluca Lerici (Professor Bad Trip), prematuramente scomparso nel 2006 (fumettista che divenne poi molto famoso negli anni, collaborando con Shake Edizioni) creammo la fanzine chiamata “Archaeopteryx”. Il primo numero era fatto in eliocopia, tutto a mano.
Cos’ è stato il punk per te?
Il punk ha offerto una forma espressiva al mio pensiero, attraverso i testi che scrivevo. Era un modo di spezzare le catene del conformismo e di gridare il mio non riconoscermi in questa società.
Che tipo era tuo fratello da giovane?
Lui era due anni più piccolo di me e non gli è mai interessata la scena punk. Da giovane è stato attratto dalla pittura come forma di espressione esistenziale. Amava molto i pittori della secessione viennese, su tutti Egon Shiele. Un ricordo che ho di lui da ragazzo è nella cantina dei nostri genitori, dove si chiudeva a dipingere. Mi colpiva la sua minuziosità nel cercare oggetti e assemblarli, come potevano fare i dadaisti, l’amore per l’objets trouvés, la decontestualizzazione degli oggetti.
Che rapporto aveva Stefano con la musica?
Non era musicista. Però ha lavorato a questo progetto industrial che si chiamava “Korf”, e faceva parte di un lavoro che aveva ideato insieme ad altre persone. Facevano installazioni artistiche, che sonorizzavano. In gioventù gli piaceva Dylan, poi aveva sviluppato gusti musicali legati alla new wave. Ricordo Bauhaus, Joy Division. Gli piaceva tantissimo un autore tedesco abbastanza sconosciuto che si chiama Klaus Nomi.
Come aveva iniziato a fare l’artista?
Aveva cominciato come artista classico e poi aveva sviluppato il suo stile, anche attraverso installazioni concettuali e sperimentazioni legate al riciclo di oggetti trovati. Era molto amante del recupero, del ridare nuova vita a oggetti inutilizzati.
Che insegnante era?
Certamente non era un insegnante convenzionale, di quelli che stanno dietro alla cattedra. Insegnava pittura, storia dell’arte e gli piaceva portare i ragazzi fuori dalla classe, farli guardare al mondo con un occhio artistico, soprattutto quando era a Tempio Pausania (in Sardegna), perché a Spezia aveva già trovato delle resistenze rispetto al suo modo di intendere l’insegnamento. Ha scelto di andare in pensione anticipatamente. La sua didattica, proiettata verso la modernità, era diventata inconciliabile con quella che veniva richiesta ai docenti e con la parte più intima della sua persona, amante della natura ed estraneo al mondo dei consumi e dell’apparenza.
Chi erano i suoi artisti di riferimento?
Quando era giovanissimo amava molto Van Gogh, in seguito il secessionismo viennese e da adulto si era avvicinato a cose che ricordano più la scuola di Darmstadt. Secondo me come punto di riferimento aveva Joseph Beyus, un artista legato molto alla natura e che lo aveva influenzato molto anche dal punto di vista filosofico. Poi sicuramente Rudolf Steiner, l’antroposofia, la biodinamica. Lui era anche amante dei movimenti esoterici, mi ricordo che le prime cose su Gurdjieff le avevo sentite da lui.
Che rapporto avevate?
Non eravamo in contatto. Quando si è ritirato dall’insegnamento, si è allontanato da tutto e tutti, famiglia compresa, e si è ritirato a Morsiano, dove credeva di poter vivere pienamente la sua filosofia di vita a contatto con la natura e fare di questo una forma d’arte.
Non vi sentivate mai?
No. Aveva un vecchio telefono che usava solo per le emergenze.
Come lo definiresti: che tipo era?
Non amo definire le persone, è un po’ come creargli un recinto e mio fratello era un uomo libero. Un uomo che si era ritirato dalla società per poter esprimere con spontaneità il suo modo di intendere il legame con il mondo.
Quando è andato a Morsiano, e perchè?
Circa una dozzina di anni fa, durante un’escursione che aveva fatto si era innamorato di quel posto e ha deciso di trasferirsi lì. Non è dove aveva scelto di vivere a fare la differenza, ma il come, con uno stile di vita molto personale. Conduceva una vita molto spartana, era vegetariano da più di trent’anni e gli piaceva vivere in sottrazione, in armonia con quanto lo circondava. A volte faceva escursioni attraverso i boschi e i sentieri che duravano anche mesi. Era un pacifista convinto, antimilitarista. Infatti scelse negli anni ’80 il servizio civile.
Quando hai capito che c’erano tensioni con la comunità locale?
Delle tensioni nei confronti di Stefano da parte della comunità locale sono venuto a conoscenza solo dopo la sua morte. Era un artista sensibile, un uomo di cultura, ma che viveva fuori da ogni tipo di condizionamento sociale in un piccolo paese dell’appennino. Probabilmente il suo stile di vita risultava incomprensibile a mentalità chiuse, alimentate dal pregiudizio. Infatti lo spiavano, facevano foto e video per via del suo modo alternativo di vivere, di fatto rifiutandolo. Questa ostilità risulta evidente in più di un intervista apparse su diverse testate giornalistiche, dove nemmeno troppo velatamente si sottintendeva che “se lo era meritato”. Questi posti mi ricordano il profondo sud americano del film Easy Rider, dove i protagonisti vengono sorpresi e assaliti durante la notte dagli abitanti, sudisti e nazisti. Mentre Jack Nicholson e Peter Fonda dormono nel sacco a pelo, uno dei due viene bastonato e ucciso.
Come hai avuto la notizia del pestaggio per cui poi è morto?
Mi ha telefonato una mia amica la domenica mattina, lui era stato aggredito il venerdì sera.
Conoscevi i suoi aggressori?
No, assolutamente, non conoscevo i suoi aggressori. “Motivazioni” per quello che è successo non ne esistono. Mio fratello non c’è più.
Che aspettative hai per il processo?
Sono fiducioso. Voglio giustizia, anche se non sono mai stato un giustizialista. Non amo le galere, preferirei che facessero un percorso lungo anni di lavoro per gli altri. Ma tanto mio fratello in vita non ci torna. Ora, a caldo, non posso dire di non essere turbato. Vorrei vedere le persone che lo hanno ucciso e cercare di capire come sono. Vorrei chiedergli: “Perché?” E sono anche indignato perché, pur sapendo chi è stato, questi non ammettono le loro responsabiltà.
Cos’è successo il giorno del funerale di Stefano?
Il momento del funerale è più legato ai nostri ricordi. Di gente del luogo ce n’era poca. C’era il sindaco, senza fascia. E, salvo poche persone, una delle quali ha preso anche parola per smarcarsi dal silenzio dei suoi compaesani, silenzio che ha giustamente definito “vergognoso”, l’assenza degli abitanti di Morsiano e di Villa Minozzo fa orrore. Basta dire che tre giorni dopo la morte di mio fratello, morto assassinato, a Morsiano hanno pensato bene di fare una festa per il compleanno di un novantacinquenne invitando anche la Arcuri. Mi sono interrogato molto sulla qualità di questo silenzio assordante sull’uccisione di mio fratello, come se fosse una morte di Serie B. Questo mettere a tacere credo che abbia a che fare con la politica, con il suo modo di gestire la comunicazione. Tutto ciò che non è funzionale si tace, anche e sopratutto se sarebbe bene saperlo.
Cosa succederà ora alla casa di tuo fratello?
Non saprei, ho sentimenti contrastanti. Da una parte spero che rimanga come monito per il paese, magari dipinta di nero, con la stella che Stefano si era tatuato sulla fronte. Dall’altro vorrei ridargli nuova vita, farne una fondazione o un museo con tutte le sue opere e trasformare quel luogo di morte in un luogo di vita che mantenga la memoria di ciò che è accaduto.
Come vorreste che sia ricordato?
Come era lui, una stella. Per quello che voleva essere, un uomo libero. E spero anche che il fantasma di mio fratello continui ad aggirarsi a Morsiano, che continuino a vederlo ovunque. Lo hanno ucciso perché volevano liberarsene, ma non si sono resi conto che quello che hanno fatto resterà per sempre. Una macchia indelebile su quel paese e su tutti quelli che lo hanno vilipeso. Apparirà, mio fratello, magari nel bosco, sotto forma di qualche animale. Anche per questo ho deciso di seppellito lì, dove aveva deciso di vivere. La sua aurea, la sua energia continuerà ad emanarsi. Anche se faranno le feste più grandi del mondo, non si libereranno di Stefano e nemmeno di quello che sono stati capaci di fare: ammazzare un uomo.
Quel paese è condannato per sempre.
—
L’articolo “Mio fratello Stefano Daveti era una stella, chi lo ha ucciso non si libererà di lui” di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-08-01 14:52:00