“In Italia ci vorrebbero più festival così, più elettronica fatta bene. La techno commerciale è tutta uguale, appena ci fai l’orecchio ti accorgi che è solo cassa dritta”. Ai tavoli dell’area ristoro del Lost Festival la ragazza con cui parlo lo dice chiaro e tondo: “Se vuoi trovare degli eventi di musica elettronica fatta bene, ancora oggi devi andare a Berlino”. Poi tira fuori il telefono. Reel salvati. Video di gente che balla sotto cassa in un parco al pomeriggio. Emoji della puntina, Berlino. Ha ragione, ricorda molto il posto in cui siamo.
È domenica pomeriggio al Labirinto della Masone, l’ultimo giorno del Lost Festival. Fin dalla sua prima edizione nel 2019 il festival è ospitato dal più grande labirinto del mondo, vicino a Parma. La location è suggestiva. Musica sperimentale, centinaia di corridoi di canne di bambù, elettronica martellante e tre palchi su cui si sono alternati artisti italiani e internazionali. Il Lost è una tappa obbligata per chi si vuole risparmiare un viaggio fino a Berlino e per chi vuole provare a portare un po’ di Berlino in Italia. Quest’anno in line up c’erano Astrid Sonne, Pelada, James K, Piezo, Varg²™, e un sacco di altri artisti. Le chiacchiere si fanno nella zona relax, un grande prato dove la gente si sdraia tra un live e l’altro, ma qualcuno preferisce non rinunciare a nulla.
Durante il concerto di Dali Muru & the Polyphonic Swarm sono quasi tutti sdraiati. Occhi chiusi per farsi cullare meglio dal sound cinematico e minimale della band belga. Poi verso la fine del live si sente un sonaglio battere a tempo dal pubblico. Un paio di ragazzi si gasano e gli fanno eco suonando delle canne di bambù con dei legnetti trovati a terra. Nessuno si scompone. C’è chi dorme, chi si fa aria con un ventaglio (molta gente, evidentemente veterani attrezzati), chi suona e qualche sparuto ballerino solitario che non ha ancora perso la carica alle 18 della domenica. Il festival va avanti da venerdì.
È la tabella del festival a decidere quando recuperare energie e quando spenderle tutte. Subito dopo la performance ambient si passa a un altro spiazzo del labirinto. Per ingannare il tempo basta provare ad arrivarci senza tornare sulla strada principale. Ci si perde (letteralmente) tra i cunicoli circondati da bambù e si tira un bel respiro. Qualche uccello che cinguetta, vento tra le foglie e un tunz tunz tribale in lontananza.Ma Badsista e Pelada ce la mettono tutta per farci spendere tutte le energie recuperate. E ce la fanno benissimo.
Badsista è una dj brasiliana, la sua firma sono dei bassi che fanno tremare le canne di bambù, braccio alzato e mano che si muove a tempo. Altri ventagli che sventolano. Ma la gente rimane sconvolta per il live che arriva subito dopo. Pelada è un duo canadese che negli ultimi anni si è fatto conoscere in tutto il mondo per l’attitudine punk da dito medio sempre alzato e “Tout le monde deteste la police”, mentre il beat distopico trance dal sound grattugiato e dai ritmi tachicardici rimbalza tra le piante. I pionieri del ballo sperimentale, occhiali da sole e cappellino, sono inarrestabili. Uno prende un fusto di bambù con la mano destra, una con la sinistra e… salto mortale. Lì intorno nessuno si scompone, nessuno si stupisce. Né i due signori con una lunga barba bianca, né gli over 35 che ballano a occhi chiusi, e nemmeno il mare di ragazzi e ragazze stretti gomito a gomito sotto cassa.
Il mondo dell’elettronica è stranissimo per chi non lo frequenta abitualmente (come il sottoscritto). Si balla tutti insieme, ma da soli. Un ammasso magmatico di persone che si muovono ognuno per conto proprio. Questa non è una novità, ma in un festival così grande è un aspetto che colpisce ancora di più. Ballare sotto cassa con Badsista o Pelada alla consolle è un’esperienza da fare a mente libera, senza distrazioni. Puoi avere qualcuno di fianco, ma poi finisci a ballare tra te e te. Le chiacchiere, ripeto, si fanno nella zona relax. Qui non c’è tempo da perdere, ogni momento passato a interagire è una mossa persa. La cosa che mi colpisce – sempre da profano – è come fa a esistere una scena che alla base ha questo atteggiamento da ognun-per-sé. Qui la musica è davvero al centro, forse troppo, al punto da scavalcare addirittura le persone intorno a te.
La maggior parte degli italiani, visto che stranieri ce ne sono eccome, arriva da Milano, ma incontro un ragazzo arrivato da Napoli apposta per il weekend nel labirinto. “Oggi veramente una bomba. Gli altri giorni abbiamo sentito live un po’ troppo sperimentali”, dice. “Cioè belli, ma non ce li aspettavamo. Tipo Maria W Horn e Sara Parkman, che hanno suonato sabato, bravissime, ma non pensavamo ci fosse un concerto tra black metal e musica sacra”, racconta guardando un’amica. Lei annuisce. “Il più figo per ora è stato SHYBOI, venerdì notte. Veramente tamarro, ma nel modo giusto“.
A nessuno “frega nulla” della line up, o almeno non più di tanto. Nessuna delle persone con cui parlo è interessata a qualcosa di specifico, un artista o un live. C’è anche chi non conosce proprio nessuno. “Sono venuta qui anche l’anno scorso e c’era una bella situa. Allora sono tornata“, dice una ragazza. Ecco perché non ci si aspetta Horn e Parkman, autrici del joint album Funeral Folk, ma è lo stesso motivo per cui ci si innamora di Piezo senza averlo mai ascoltato. È uno dei più grandi successi per un festival. Quando la gente viene al di là dei prezzi, della strada e dei musicisti vuol dire che si è creato un rapporto di fiducia. Si va per farsi un weekend tachicardico in un posto meraviglioso senza mai togliersi gli occhiali da sole.
La chiusura del weekend è affidata al b2b tra Piezo e Simo Cell. Qui arriva l’elettronica stilosa. Quella che fa vibrare le colonne della corte interna, che ti accarezza e poi ti molla un gancio a 40 hertz. Sempre occhiali, in aria più ventagli che mani. Ormai ho capito che è un gadget immancabile. Piezo e Simo Cell sono due fuoriclasse. Il primo italiano, l’altro francese. Sono due che riescono a fare pezzi che spaccano oggettivamente (poi i gusti sono un’altra cosa), apprezzati sia dagli iniziati al genere, sia dai profani.
Quando capiterà a me di dover consigliare un festival di musica elettronica mostrerò un reel del Lost. E se ci fossero più festival così in Italia, forse la techno non sarebbe raccontata come viene fatto.
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L’articolo Berliner d’Italia uniamoci: il nostro viaggio al Lost Festival di Martino Fiumi è apparso su Rockit.it il 2024-07-08 16:21:00