L’appuntamento è per le dieci ai piani alti, negli uffici di Carosello, la sua nuova etichetta discografica. Come spesso avviene ai forestieri, però, l’incontro avviene prima, bello e casuale, roba da paese. Alta, ancora più alta per via dell’immancabile chitarra sulle spalle, Emma Nolde pare un elemento di decorazione della Galleria del Corso, “l’altra galleria” della città, un passaggio coperto che collega corso Vittorio Emanuele II con piazza Cesare Beccaria, dove stanno i vigili.
Sorride, è andata a dormire abbastanza presto anche se il giorno prima è stato campale. Con lei Luca, il suo manager, e Andrea, produttore del suo primo disco e del terzo, NUOVOSPAZIOTEMPO, uscito in queste ore (qua la nostra rece). Nella nostra testa, probabilmente, vorremmo tutti fare qualche battuta su Milano, ma ce le risparmiamo. E imbocchiamo l’ascensore.
Quello in cui stiamo entrando è un posto sacro per la musica italiana: anche senza gridarlo, copertine di dischi e premi sulle mensole ce lo ricordano girato ogni angolo. Morricone, Ortolani, Modugno, Ivan Graziani, Vasco Rossi, fino ai tempi moderni con Diodato, Thegiornalisti, Coez. Emma Nolde ci è entrata a 24 anni, dopo due dischi in cui la sua Toscana era stata casa e bottega. Ci è arrivata perché sin dalle sue primissime produzioni, poco più che maggiorenne, era chiaro ed evidente che ci si trovasse di fronte a una fuoriclasse, totalmente fuori categoria tra i nuovi autori e interpreti di “musica leggera” – tra virgolette per senso del pudore – in Italia. Il punto, per tutti coloro che sono dotati di simile talento, è come metterlo a frutto.
Ora la sensazione è che l’artista che abbiamo di fronte, e che dispensa sorrisi a tutti, sia perfettamente risolta, nonostante un fardello di aspettative che pochi possono vantare, e al contempo lamentare, alla sua età. Non sarebbe potuto nascere altrimenti un album di questo tipo, un disco vario eppure estremamente compatto, con brani intimi e pezzi da fare esplodere live, cose tristi dette su pezzi ritmati e gioia soffiata in faccia con un filo di voce. Un disco di storie che possono resistere al tempo, che non sente più il bisogno di rivendicare alterità ma piuttostoguardi agli altri, si prende la briga di ascoltarli e di raccontarli.
Accendiamo il registratore.
Anzitutto, come stai?
Sto bene. Cerco di ripetermi costantemente quanto io debba essere grata. Ecco, sì. Grata è proprio la parola che mi viene in mente per quello che mi sta succedendo. Sono giorni frenetici, martedì abbiamo fatto un evento di presentazione del disco e la cosa che emoziona di più è vedere l’entusiasmo delle persone che lavorano con me, il mio team e i miei musicisti. Anzi, a voler vedere il lato negativo mi spiace che dopo aver suonato loro riprendano il furgone e tornino a casa, mentre io rimango qua. Mi piacerebbe tanto che fossero qua anche oggi, che ci fossero sempre.
Sei una che tende a vedere il lato negativo?
Per come sono fatta, ricordarmi che prima o poi tutte le cose finiscono, anche quelle belle, mi aiuta. Me le fa godere a pieno, mi costringe a prendere in faccia tutta la felicità, quando la senti nell’aria. In questi giorni le sensazioni sono proprio belle, per tutti.
Come vivi l’inevitabile settimana a Milano dei “provinciali” che hanno fatto un disco?
In generale la promo mi mette alla prova. Faccio un po’ fatica a parlare di me, del mio lavoro. Arrivo a fine giornata che mi sento spossata. E mi viene da farmi delle domande: parlo della cosa più amo fare, perché mai dovrebbe essere un “peso” farlo? Credo sia una lotta con me stessa, una risposta del mio sistema immunitario che vuole che io resista alla tentazione di sentirmi superiore a qualcuno o qualcosa. Impedisce al mio ego di gonfiarsi, cosa che quando si parla a lungo di sé stessi c’è sempre il rischio che avvenga.
Una specie di sindrome dell’impostore al contrario. Fossi il tuo psicologo direi una cosa tipo “mmm, interessante”. Invece vorrei affrontare la possibile contraddizione tra quello di cui stavamo parlando – Milano, la promo, etc. – e un album che invita a rallentare, a vivere la vita a proprio modo e con i propri tempi.
Quella contraddizione c’è eccome. Con il lavoro che faccio, almeno in momenti come l’uscita del disco, non è facile essere “lenti”. A volte mi sento ipocrita. Poi penso che quello che uno scrive e canta non è che debba rappresentare la sua biografia al cento per cento, infatti la discografia è piena di canzoni d’amore meravigliose scritte da uomini orribili. Inoltre penso che la coerenza sia una dote parecchio sopravvalutata: cambiare idea è una cosa bellissima. Però in fondo spero che questo disco serva a educarmi almeno un po’ a “vivere meglio”. E mi impegno a trovare il tempo di andare a mangiare qualcosa con tutte quelle persone cui in questi giorni sto dicendo “dobbiamo vederci presto”, pur consapevole che magari non succederà.
Cosa significa trovarti qui oggi, aver fatto un disco con Carosello?
Significa poter assorbire il loro entusiasmo, che, come dicevo prima, per me è la cosa più importante. Io non sapevo che la discografia potesse essere così, che questo lavoro si potesse fare in questo modo. Avevo una certa disillusione verso questo mondo. Ma da quando ho iniziato a lavorare con loro, mi sento perfettamente a mio agio qua. Non devo rincorrere nessuno per avere delle risposte, sento che stiamo andando tutti nella stessa direzione.
Prima di chiederti che disco volevi fare, ti chiedo, dopo aver fatto questo, cosa pensi dei tuoi dischi precedenti?
È la stessa domanda che mi ha fatto qualche tempo fa Federico Dragogna (membro dei Ministri, ndr) prima di un live sulle montagne… Io quei dischi li amo follemente, ma oggi mi rendo conto che erano lavori in cui non ho messo alcun tipo di attenzione nei confronti di quello che gli altri potevano capire o non capire. Anzi, a volte mettevo proprio i bastoni tra le loro ruote: una struttura particolarmente strana, quella parolina che non ci stava bene… Ma sia chiaro, non ho alcun risentimento verso il mio passato: non ho mai rimorsi verso le scelte che ho fatto se quando le ho fatte ero felice.
È cambiata la prospettiva da cui guardi la musica?
Diciamo che il primo album,Toccaterra, non aveva una vera prospettiva. Facevo quel che mi andava di fare, non pensavo a nulla di preciso mentre scrivevo quelle canzoni. Ero giovane e non sapevo nulla di questo mondo. Mentre scrivevo Dormi ricordo di aver pensato: “Questo disco mi porterà in posti dove non sono stata prima”. E in effetti mi ha avvicinato a molti artisti, a chi la musica la fa. Niccolò Fabi l’ho conosciuto grazie a questo album. Ma è un disco nato in quarantena, senza alcuna contemplazione dell’altro. Non posso dire che con quel disco volessi arrivare a tutti. Infatti con più di una persona ho avuto la sensazione cheDormi l’avessero “quasi capito”, di certo non capito del tutto.
In cosa esattamente questo disco è diverso?
Questo disco ha l’ambizione di essere capito. Io ho proprio voglia di essere capita. Potrà piacere oppure no quel che faccio, ma non deve più succedere che io non contempli chi ascolta quando lavoro alla mia musica.
Come hai lavorato per andare in quella direzione?
Ho iniziato a lavorare alle nuove canzoni cheDormi non era ancora stato pubblicato, e come ti dicevo avevo quella strana sensazione in testa. Sono ripartita con la voglia di una nuova sfida, dal bisogno di aprirmi e non parlare a me stessa.
Hai messo in discussione il tuo modo di fare musica?
Ho cercato di abbattere certi schemi che avevo su come è fatta una canzone. Prima ragionavo un po’ tipo “canzone triste o seria uguale pianoforte e voce, al massimo chitarra e voce; canzone felice uguale ballare, parte ritmica”. Ecco, questo non ha senso. Si possono dire cose felici senza sottolinearle con le pulsazioni, e fare muovere le persone cantando concetti tristi. Abbattuti questi steccati, è stato tutto più facile.
Come sei arrivata al suono di NUOVOSPAZIOTEMPO?
Prima partivo sempre da chitarra e voce. Per NUOVOSPAZIOTEMPO ho iniziato a scrivere sulla batteria, che è una cosa che non avevo mai fatto. Mi sono fatta guidare da idee, spunti, intuizioni. Sconosciuti mi è entrata in testa mentre ero al mare, dove per altro non vado quasi mai, e ho cominciato a canticchiare un “ta-ra-ra”, che però inizialmente immaginavo appoggiato su una chitarra distorta. Con il tempo e il lavoro dei miei fantastici collaboratori, a partire dagli input iniziali, abbiamo trovato di volta in volta la soluzione che reputavamo ideale. Per questo nel disco sentirete arrangiamenti molto diversi tra loro, e molto diversi rispetto al passato. Di sicuro è un disco pieno di strumenti, dove ci sono la chitarra e il pianoforte, il violoncello, il sax e la batteria. Sono loro a dare corpo e coesione al disco, a tenere tutto assieme. Tutto quanto è suonato “per davvero”.
Come hai scelto i tre feat. del disco?
Niccolò Fabi è il feat. dei miei sogni. Se ho cominciato a fare canzoni in italiano è per via di Una somma di piccole cose. Lui è venuto al mio concerto al Monk a Roma e io non lo sapevo, me ne sono accorta mentre eseguivo Berlino e mi sono sentita male, perché mi sarei sentita molto più a mio agio a saperlo lì mentre suonavo un pezzo molto più triste e malinconico. Invece se la ballava, ed è stato fantastico. Quando mi ha chiesto “perché non facciamo una canzone assieme”, io ho risposto “ma infatti, perché non facciamo una canzone assieme?”. Ci siamo visti più volte, e sono molto grata di aver pubblicato Punto di vista con Niccolò. Con Nayt ci siamo incontrati in uno studio a Roma: dovevamo lavorare su un’idea che è stata accantonata subito. Io ho iniziato a suonare il piano e lui si è messo a cantare. Il risultato è esattamente quello che si sente nel disco: aveva questo microfono lontanissimo, tanto che abbiamo dovuto alzarlo parecchio di gain. Ma era perfetta così, perché quella traccia, Punto di domanda, suona esattamente com’è lui. Quando ci siamo domandati chi fosse la persona perfetta per chiudere questo cerchio, il nome di Corrado, Mecna, è venuto fuori in automatico a entrambi. È stato la ciliegina sulla torta.
Hai mai pensato “vorrei fare un disco come quello”? Non parlo tanto di suono, quanto di approccio alla musica.
Ti potrei dire Franco Battiato ne La voce del padrone, e spero che nessuno pensi che mi stia paragonando a lui… Era un disco di sette tracce, molto diverse tra loro eppure con un filo rosso impossibile da non vedere. Canzoni che potevi ascoltare con il massimo della concentrazione per provare a capire tutti i riferimenti, oppure potevi risparmiarti ogni sforzo ed era comunque perfetto. Battiato è sempre stato in grado di parlare a tutti senza rinunciare a una sola cosa che per lui era importante dire. Ecco, questa è la mia ambizione.
Siamo arrivati al solito punto di equilibrio, così difficile da raggiungere, eppure fondamentale se si vuole fare musica che rimanga. Coniugare altezza e larghezza. Credo tu abbia fatto un ottimo disco pop, qualunque cosa queste tre lettere significhino.
A me il pop piace un sacco. Ad avvicinarmi alla musica per primo è stato Ed Sheeran, il modo in cui la sua voce stava sulla sua chitarra. Sono cresciuta con lui e con i Coldplay, che erano già quelli di Viva la vida e non dei primi dischi. Una come Chappell Roan mi fa impazzire. Niccolò Fabi, per dire un nome di un profilo molto diverso da questi, è arrivato dopo. Il pop, quando è fatto bene, è quella cosa che ti fa piangere o ballare in maniera immediata, quasi irrazionale. Forse in passato mi ero un po’ dimenticata di questo mio grande amore, ora ho voluto ricordarmene. E fare incontrare questo mondo con tutto quello che poi ho incontrato lungo il mio cammino.
Sin da subito, e certamente anche per colpa della categoria di cui faccio parte, hai dovuto scontrarti con un sacco di aspettative. Come l’hai vissuta?
C’è stato un momento in cui non sentivo che quelle aspettative erano in sintonia con quello che ero. Era come se facessi tappeti e continuassi a incontrare persone gasate per i miei tappeti, ma che speravano che un giorno io facessi divani. Avevo spesso la sensazione che mi ritenessero capace di fare cose belle, ma dentro alcune persone c’era la convinzione che un giorno avrei fatto qualcosa di completamente diverso. Magari qualcosa che io non volevo fare. E mi veniva naturale pensare che fossero in errore, che stavano guardando dalla parte sbagliata. Ora è diverso, mi sento capita. E questo da un lato rende tutto più difficile, perché è più complicato trovare giustificazioni.
Credi che quello che fai oggi sia più “chiaro”?
Credo di sì. Mi sembra ci sia meno spazio per interpretazioni o fraintendimenti. Dario Giovannini (managing director di Carosello, ndr) un giorno mi ha detto: “Se questo disco non dovesse andare come speriamo, Emma, non ti buttare giù”. Stavo per dirgli la stessa cosa… Il mio entusiasmo è al massimo. Non ho paura, non faccio dischi per compiacere e l’impegno è stato massimo. Non è mai stato quello l’obiettivo.
Come lo capirai se è andata bene?
Per me il successo sarebbe che la prossima estate, quando andremo in giro a suonare questo album dal vivo, io possa portare tutti quanti coloro che lavorano con me, e che si meritano di stare sul palco. E che magari possano guadagnare un po’ di più dai concerti che facciamo.
Facciamo i loro nomi, per chiudere questa conversazione.
Marco Pizza Martinelli alla batteria, che c’è da sempre. Francesco Panconesi alle tastiere e al sassofono. Andrea Belinati a basso, percussioni e violoncello. Matteo Guasti che è più che un fonico. Sasha Chimenti alle luci. E Andrea Pachetti, che ha prodotto il disco con me, ed è una figura semplicemente fondamentale nella mia musica.
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L’articolo Emma Nolde: “Volevo solo essere capita” di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2024-11-08 09:06:00