Il macchinone color viola sgargiante parcheggiato potrebbe sembrare totalmente fuori contesto, e invece è proprio la conferma che ci troviamo nel posto giusto. Siamo in Piazza Borgo Dora, a Torino, di fronte alla Scuola Holden, istituto fondato da Alessandro Baricco negli anni ’90 e rivolta a chi vuole imparare l’arte del raccontare. Il che non si limita solo alla parola scritta nel senso più tradizionale, ma si estende a qualsiasi forma di comunicazione. L’ospite di giornata è uno che ha trovato il proprio percorso attraverso la musica, sviluppando un suo linguaggio che non è semplicemente riconoscibile, ma proprio impossibile da copiare: Gabriele Pastero aka Diss Gacha, rapper torinese e proprietario del sobrio veicolo di cui sopra.
Ne parlavamo qualche mese fa, poco dopo che il rapper piemontese venisse eletto dalla Treccani come “king del fonosimbolismo italiano”. Non è solo attraverso un lessico specifico, che passa per la “correre corsa”, i “ballas” o “captato”, tutti termini evidenziati in rosso nel Diss-zionario, ma anche con onomatopee, versi, suoni che è difficile tanto da riprodurre quanto da incastrare in un flow. Se non una lingua a sé, poco ci manca, che lui stesso rivendica come Cultura italiana, per riprendere il titolo del disco di cui è stato annunciato il secondo capitolo in uscita a fine mese. Quindi è ben chiaro che chiamarlo come ospite del ciclo di talk organizzato dalla Holden per l’inizio dell’anno accademico fosse quasi doveroso.
È proprio da Cultura italiana che parte l’ora di chiacchiera, con il verso “Ho imparato tutto perché mi sentivo vivo”, estratto dall’intro dell’ep, come titolo di questo momento di scambio tra Gacha e gli studenti. Verso che spiega subito lui stesso: “Quel pezzo racconta di quando sono Atlanta col mio produttore, con niente in tasca. Lì è stato il posto dove eravamo alle strette per capire cosa davvero volessimo fare“. Ed è già da qua che si percepisce la lucidità di Gacha nel fare quello che fa: non è affatto scontato avere così chiaro il percorso davanti a sé, o comunque mettersi nelle condizioni di stare davanti a un bivio e decidere quale sia la direzione da intraprendere. “Se attorno hai la consapevolezza giusta, sai che la lungimiranza è importante, quindi è meglio lavorare giorno per giorno senza saltare le tappe. Me l’aveva detto un mio amico nel 2020: ‘Se non vuoi tutto subito ce la farai‘”, dirà poi.
Durante il lungo scambio tra l’esperienza di Diss Gacha e gli studenti emerge molto l’unicità di un rapper così in uno scenario contemporaneo. Non è solo una questione di lessico, per quanto lui stesso lo tiri in ballo come fondamentale, o di quel fonosimbolismo – “A me piacciono i suoni, i versi, quindi quelli che altri rapper facevano come sporche io li mettevo nelle strofe”, spiegherà a un certo punto – di cui accennavamo in precedenza: c’è una coerenza nell’immaginario di Diss Gacha che va molto più in profondità di quanto un occhio distratto potrebbe cogliere. Il tutto dettato dall’essere fedele alla propria identità, senza cercare di indossare una maschera altrui: “Devi essere chi sei. Se io faccio canzoni solari e poi mi presento sul palco tutto moscio le cose non combaciano, significa che sto facendo qualcosa che non mi rappresenta davvero”.
È come a riaffermare un patto di sincerità tra musicista e ascoltatore: io che mi esibisco mostro a te che ascolti esattamente ciò che sono, perché qualsiasi altra declinazione sarebbe una posa. “Se ti trovi a fare qualcosa che non ti rappresenta, non sarai mai veramente contento. Finiresti per cambiare strada, e non funzionerebbe comunque”. Non consensi, ma un riflesso il più possibile vero di ciò che si è. E questo apre la porta alle possibilità di essere non capito, e quindi criticato. “Una critica, se non viene fatta da una persona di cui hai veramente tanta stima, dà fastidio. Se una persona che stimi ti dice che una cosa non funziona, la accetti perché sai che quella critica è fatta con il cuore”.
C’è poi un passaggio che colpisce per la visione più comunitaria che Gacha ha della musica: parla sempre di un “noi”, di un insieme di persone che si muovono nella stessa direzione, a fronte di un “io” che è facile ritrovare soprattutto nella narrazione rap, quando questa punta sull’autoaffermazione del singolo rispetto al resto. Su questo Gacha dimostra una visione molto meno individualista di molti suoi colleghi, riconoscendo il valore delle persone di cui è circondato: “Anche se le persone intorno a te non fanno qualcosa nell’atto pratico che può aiutarti nel tuo percorso, già il fatto che ti facciano stare bene è un contributo”. È l’energia condivisa a fare la differenza: “È importante non curarti solo, singolarmente, di una cosa, ma dare una forma completa a quello che fai, anche se a volte ti esplode la testa per tutto ciò che devi pensare”.
Mentre le domande degli studenti fioccano, è facile rendersi conto come non ci sia davvero niente di costruito in Gacha. Oltre a una notevole tridimensionalità del personaggio, che supera di parecchio i “vroom” gli “ah ah” che costellano le sue barre, nelle sue parole emerge una linea di pensiero, una visione che viene poi veicolata scegliendo di fare qualcosa che è davvero inedito. Cercare delle strade non battute, plasmare la lingua, giocare sul confine tra rumore e parola per vedere (ben poco di nascosto) l’effetto che fa e il significato che ne deriva. Mentre là fuori i discorsi istituzionali diventano supercazzole incomprensibili, Diss Gacha ha trovato il modo di comunicare a tantissimi completamente a modo suo. Magari è un po’ prematuro, ma nel caso si liberasse un posto in ministero in futuro, un pensierino…
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L’articolo Date una cattedra a Diss Gacha di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2024-11-07 16:00:00