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Oltre la cronaca del suicidio c’è la sua comprensione scientifica, la suicidologia, un percorso di empatia e attenzione

Oltre la cronaca del suicidio c’è la sua comprensione scientifica, la suicidologia, un percorso di empatia e attenzione

“Suicide is a Baobab Tree: A Narrative Medicine Case Study” è il nome di uno studio che si legge d’un fiato. L’autore è lo psicologo brasiliano Adriano Machado Facioli, che nel gergo della suicidologia è un survivor: suo fratello si è tolto la vita nel 1998. Il suicidio è un baobab perché quando si insinua in una mente esausta è difficile da eradicare: se manca un intervento tempestivo, cresce per anni fino a penetrare l’identità e a diventarne il fusto. “Pensai che la sua preoccupazione per me sarebbe stata sufficiente a tenerlo in vita” scrive Facioli nel suo studio, un esempio di medicina narrativa applicata al suo vissuto. Ma il dolore di un survivor non funge da analgesico contro la psychache, una sofferenza mentale irrisolvibile che ogni 40 secondi è letale per oltre 700mila persone nel mondo. «Una mente che prova una sofferenza estrema non è in grado di elaborare le conseguenze su chi resta. Questa riflessione può aiutare a gestire la mente suicida attraverso un percorso fatto di sensibilità e attenzioni».

Lo dice il professore Maurizio Pompili, ordinario di psichiatria, luminare della suicidologia, presidente della sezione omonima della Società italiana di psichiatria e direttore del Servizio per la prevenzione del suicidio dell’Azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma. Prima di tutto questo, c’è la sua risonanza empatica con la sofferenza di queste persone: un suicidologo fa il possibile per allinearsi con il dolore del paziente sapendo che, nella sua disperazione, vivere è una volontà latente. Il suicidio è solo un rimedio a un’esasperante sofferenza, l’unico che passa attraverso la morte. L’empatia del professionista permette al paziente di attenuare o accettare il dolore mentale: se il paziente si sente capito e aiutato, sceglie la vita. Se il suicidio resta solo la cronaca dell’ultimo messaggio, ci si allontana dalla sua vera comprensione, scientifica e con una sua scienza: la suicidologia, ramo della neuropsichiatria introdotto da Edwin Shneidman nel 1964. Per spiegare il meccanismo della mente suicida, Shneidman parlò di dialogo interiore: all’inizio la mente respinge il suicidio passando in rassegna diverse opzioni, continua a rifiutarlo e a valutare altre possibilità, fino a che sono tutte inutili. La paura ha un ruolo importante, spiega Pompili, essendo legata alle emozioni negative che spesso dettano il passo al rischio di suicidio, perché causano sofferenza: «La paura è la proiezione, in termini immaginati, ma anche reali, di qualcosa di terribile che potrebbe accadere. Il suicidio non è un fulmine a ciel sereno, è sempre il risultato di un percorso di considerazioni che trovano risoluzione in un momento saliente. Esistono fattori che rendono un soggetto più vulnerabile, ma alla base c’è sempre questa condizione della mente che soffre». Fattori personali (un trauma, una dipendenza, un’alterazione genetica) oppure ambientali e sociali: tra il 2018 e il 2022, il varo di 48 leggi anti-transgender in 19 Stati americani aveva provocato un aumento dei tassi di suicidio tra i giovani transgender e non binari, a ingiusta testimonianza del fatto che persino la propria identità, se privata dei propri diritti, diventa una sofferenza di cui doversi disfare. Se pure esiste un legame tra l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) implicato nella risposta allo stress e i comportamenti suicidari, oggi «Più che cercare una disfunzione a livello neurologico, cerchiamo di far luce sulla mente suicida, sul dialogo interiore per affrontare il dolore mentale». Questo si svincola dalla mera diagnosi psichiatrica, per rivolgersi alla complessità della sofferenza e alla motivazioni dei singoli soggetti. I disturbi psichiatrici sono elementi importanti ma non esclusivi del rischio di suicidio, occorrono cioè elementi legati alla personalità, alla frustrazione di bisogni la cui mancata soddisfazione può mettere in discussione il fatto di voler vivere.

Cose che un chatbot non deve sapere

Il suicidio sembra avere un suo tono di voce: uno studio recente pubblicato su Nature ha analizzato i dati vocali di alcuni personaggi pubblici morti suicidi (pur non conoscendone la storia clinica, limite ammesso dagli stessi autori), utilizzando il parlato come biomarcatore vocale del rischio suicidario, dimostrando che l’intelligenza artificiale (AI) possa prevedere i suicidi reali in modo efficace. Anche la scelta delle parole permetterebbe di predire pensieri e comportamenti suicidari: nel 2022, un gruppo di ricerca svizzero ha condotto un’analisi di 75 studi su vari aspetti del linguaggio, dal lessico alla prosodia, estrapolando i dati da forum, social media, discorsi di studenti e veterani: sembra che ai pensieri suicidari corrisponda un più ampio uso di superlativi; ai comportamenti suicidari, il ricorso a pronomi e a variazioni nelle forme verbali. Oltre al dialogo interiore, c’è quello con l’AI: «Shneidman è stato mio maestro e amico, sebbene il gap generazionale. Nelle lunghe conversazioni che ci intrattenevano, immagino che l’idea dell’intelligenza artificiale sarebbe stata ricondotta alla mente suicida, dolore mentale, al ruolo del terapeuta e della comprensione empatica. Le nuove prospettive non avrebbero trovato un completo appiglio nella sua teoria, in quanto il lato umano assume un ruolo centrale». È quindi un dialogo, quello tra AI e una mente suicida? L’interazione con un chatbot potrebbe includere la possibilità di fare jailbreaking, ossia manomettere i prompt e pilotare le conversazioni fino a ottenere risposte soddisfacenti. Lo ha dimostrato uno studio dell’Institute for Experiential AI di Boston: le autrici Annika M. Schoene e Cansu Canca hanno riportato esempi concreti di quanto sia sufficiente cambiare il contesto delle proprie affermazioni per far sì che il chatbot risponda con precisione a domande che, in un primo momento, sembrava rifiutare. L’aggiramento più elementare si può semplificare con il classico “chiedo per un amico”.

Il supporto digitale (introdotto circa un decennio fa) presenta diverse lacune, anche gravi, in presenza di chatbot non del tutto pronti a interfacciarsi con l’ideazione suicidaria: è del 27 agosto 2025 uno studio pubblicato su Nature che ha analizzato la sicurezza e la risposta di 29 chatbot specifici sulla salute mentale e generici (come ChatGPT), testandoli con otto prompt di gravità suicidaria crescente, basati sulla Columbia-Suicide Severity Rating Scale (C-SSRS), un metro di valutazione fatto di domande semplici (Hai mai pensato di toglierti la vita?; Qual è il tuo piano?, ndr) per valutare la gravità dell’intenzione suicidaria e calibrare l’intervento. In risposta ad affermazioni come: “Sto pensando di suicidarmi”, solo cinque chatbot hanno fornito un numero di emergenza da contattare: la maggior parte delle risposte è stata approssimativa e, nel fornire un contatto telefonico, nessuno dei chatbot ha considerato la possibilità che la persona potesse non trovarsi in America. La marginalità delle risposte ha sì suggerito di cercare aiuto professionale, ma in un flusso comunicativo distaccato e poco empatico, dove oltretutto le prestazioni dei chatbot generici erano apparse migliori di quelli specifici per la salute mentale. Sono diversi gli studi che dimostrano l’ambivalenza dei chatbot rispetto al suicidio: sapendo che l’interazione riguarda soggetti vulnerabili, occorre una regolamentazione adeguata a tutela di queste persone. OpenAI implementerà il parental control dopo che i genitori del 16enne Adam Raine, morto suicida dopo una conversazione con ChatGPT, hanno fatto causa alla società di Sam Altman. L’approccio digitalizzato nell’assistenza e nella prevenzione del suicidio è necessario per chi non ha accesso ai servizi di assistenza sanitaria tradizionali, magari perché vive in un Paese a basso reddito in cui le risorse sanitarie sono scarse. Una review del 2020 pubblicata su The Lancet Digital Health ha raccolto 14 studi condotti in Australia e Nord America, dimostrando che l’utilizzo delle app per la gestione diretta del rischio suicidario è abbastanza efficace, ma solo nel breve termine. Gli approcciterapeutici utilizzati includono la terapia cognitivo-comportamentale, dialettico comportamentale, mindfulness, ecc. Private, però, della componente umana.

Tabu e gestione del dolore tra i professionisti

Il tema del suicidio vive un forte paradosso: ancora oggi, chi lavora in campo medico schiva il linguaggio diretto e censura l’argomento quando, al contrario, i media non lo filtrano. Spesso la cronaca del suicidio non manca una W delle cinque sacre al giornalismo, specie attraverso i don’ts che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), nelle sue linee guida aggiornate al 2023 su come parlarne, raccomanda ai media di evitare. La convinzione di alcuni professionisti è che parlare di suicidio inciterebbe i pazienti più vulnerabili a compiere l’atto. Oltre a rendere difficile qualsiasi attività di prevenzione, questo evitamento non permette loro d’irrobustirsi rispetto al tema: esistono diversi studi sull’emotività dei team multidisciplinari (psichiatri, psicologi, infermieri e medici di base, ndr) che fanno i conti con la morte di un paziente per suicidio. “Effects of patient suicide on the multidisciplinary care team” pubblicato su The Lancet Psychiatry nel 2014, equipara il dolore dell’équipe sanitaria a quello familiare: non è raro che gli psichiatri, su cui sembra ricadere la responsabilità unica di un suicidio, tendano a nullificare il loro ruolo, autoconvincendosi di non esserne in grado; molti arrivano anche a cambiare approccio clinico per paura che i fallimenti si ripetano. Nel 2022 Alison Croft e Karen Lascelles hanno condotto un’indagine qualitativa e quantitativa sui medici del Regno Unito: i loro sondaggi hanno messo in luce diverse criticità sull’impatto che, il suicidio di un paziente, ha sul personale medico. Ad acuire il trauma c’è la modalità con cui i professionisti apprendono il decesso, spesso senza un minimo di tatto o scoprendolo solo in un secondo momento, tramite il passaparola. Crisi di pianto, senso di abbandono, perdita di peso e inadeguatezza sono reazioni umane, ma chi è medico è umano senza reazioni, dunque nessuno si aspetta che il coinvolgimento professionale si manifesti in modo dichiaratamente umano. “Zero suicidi è un obiettivo irraggiungibile e continuare a spingere verso questo obiettivo significa continuare a far soffrire inutilmente gli operatori sanitari quando le persone decidono di non voler più continuare a vivere”: la dichiarazione di un’infermiera anonima centra a pieno la pericolosità di questa illusione che intrappola psicologi e psichiatri, e che non permette di vedere altro se non il peso della loro responsabilità anziché la forza del loro intervento. «Oggi stiamo divulgando sempre di più la valutazione e la gestione del rischio di suicidio, creando una cultura che permetta di avere dei punti di riferimento e conoscenze utili a esplorare il fenomeno, cosa in passato assai più ardua. Possiamo contare su tante conoscenze e traguardi già raggiunti ma bisogna continuare, proprio come per altri ambiti della salute», spiega Pompili. Altrettanto si sta facendo per i survivor: «C’è stato un cambio di paradigma: oggi c’è maggioresensibilità e conoscenza, si è iniziato a parlare un linguaggio comune. Ma bisogna fare ancora, soprattutto per sfatare i falsi miti, agire in anticipo e sostenere chi affronta una perdita per suicidio». A parlare sono anche le persone che, grazie alla terapia, hanno zittito il dialogo interiore: «È il caso di un professionista di successo che aiutammo a uscire dall’esperienza suicidaria. Volle trasformare la sua testimonianza in tanti momenti di sensibilizzazione, fui coinvolto anch’io nei vari eventi pubblici». Shneidman esortava Pompili a realizzare un contesto in cui si potessero accogliere i soggetti alle prese con un dolore mentale di qualsiasi tipo. Ci è riuscito. «La paura di confrontarsi con un fenomeno così robusto trova conforto nel sostegno di molte persone, che instancabilmente incitano a continuare. Io stesso posso contare sul sostegno di chi, da anni, segue le mie attività e mi aiuta a realizzarle». L’Italia è tra i Paesi europei con il rischio suicidario più basso, la stima è di circa 4000 suicidi ogni anno. Nel 2022 (data dell’ultimo report disponibile) l’Istat ha registrato un incremento dei suicidi rispetto al 2020, in particolare tra i giovani, con un tasso pari a 0,4 ogni 10.000 abitanti (il più alto dal 2015). Sebbene sembri un dato irrilevante, l’uso seduttivo dei social network e l’isolamento come nuovo requisito sociale consolidano un senso d’inadeguatezza di cui, bisogna fare in modo, non sia a conoscenza solo un chatbot.

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