India, Filippine, Brasile, Venezuela, Kenya. Questi sono solo alcuni dei Paesi dove i giganti del tech, o i loro subappaltatori, reclutano, luoghi dove c’è molta disoccupazione e i salari sono bassi. Nel documentario una lavoratrice anonima racconta la sua esperienza spiegando che, per ogni task di lavoro, viene pagata 0,83 dollari. Un’altra lavoratrice racconta che in media lavora dieci ore al giorno e che arriva a guadagnare dieci dollari a settimana. “Ciò che colpisce nelle loro testimonianze è sia l’intensità del trauma sia la loro perfetta comprensione del sistema di cui sono le prime vittime”, ha spiegato a Wired Italia il regista, Henri Poulain. “La maturità e la lucidità con cui analizzano le condizioni economiche, geopolitiche e storiche cui sono sottoposti si affiancano alla capacità di esprimere la loro sofferenza personale. Il personale è politico, e la politica influisce sul personale. Tutto è connesso, e loro lo comprendono pienamente”.
Una nuova forma di colonialismo
Lo sguardo del documentario è globale e plurale, una prospettiva attraverso cui l’AI viene raccontata come una nuova forma di colonialismo occidentale, non più confinato a territori specifici, ma diffuso ovunque. Non ci sono frontiere o perimetri perché lo sfruttamento riguarda tanto la terra quanto i corpi, tanto le risorse naturali quanto le vite umane. E nel caso specifico dei milioni di data worker completamente assenti dalle narrazioni sulla tecnologia, il documentario decide di dar loro centralità, di orbitare attorno alla loro voce, alle loro esperienze, alla mancanza di diritti, all’impossibilità di aderire a un sindacato: “Queste persone esistono, respirano, parlano, hanno figli, soffrono, lottano, vivono. Ed è assurdo pensare che questo, di per sé, sia già una rivelazione”, spiega il regista. “La novità”, ci racconta Henri Poulain, “è che, per questi salari da fame, firmano accordi di riservatezza, non possono dire nulla, né comunicare tra loro. Devono partecipare alla propria invisibilità. Si tratta di cancellarli dal quadro. E funziona alla perfezione”.
“Quando compriamo una maglietta, anche se prodotta in condizioni discutibili, sappiamo che qualcuno l’ha confezionata, imballata, spedita e portata in negozio. Sappiamo che c’è stata una forza lavoro. Quando digitiamo una query su un motore di ricerca o scriviamo un prompt e, in una frazione di secondo, appare un risultato, chi è consapevole che in quell’istante decine di milioni di lavoratori lo stanno rendendo possibile? Sembra impossibile. È lo scacco matto finale dell’ultraliberismo: a cosa servono i diritti dei lavoratori, se i lavoratori “non esistono”?” Per questo In the Belly of AI è un’opera importante, perché punta lo sguardo su temi cruciali per il nostro tempo e accende i riflettori laddove nessuno vuole guardare: “Bisogna farne una questione politica, un tema civico. Ciò non significa rinunciare alla tecnologia. Le alternative esistono. Sono numerosissime e si trovano in tutti gli ambiti del settore tecnologico”.