Il punto cruciale è che il capitale semantico non può essere automatizzato senza perdere la sua essenza. Può essere supportato, amplificato ed esteso dalla tecnologia, ma il momento generativo del significato – quell’atto un po’ misterioso attraverso cui i segni diventano simboli carichi di senso – rimane irriducibilmente umano. Non perché siamo speciali in senso metafisico, ma perché il significato emerge dall’intreccio di biologia e biografia, di corpo e mente, di individuo e comunità, di storia e vita, in modi che nessuna simulazione può replicare.
La formazione diventa quindi cruciale non come produzione, trasmissione e manipolazione di contenuti – compiti in cui l’AI ci supera già – ma come coltivazione della capacità di generare e valutare significati. Abbiamo bisogno di quella che potremmo chiamare una “pedagogia semantica”, che insegni non cosa pensare ma come il pensiero genera significato, imparando a parlare sempre meglio tutti i linguaggi dell’informazione, dall’A di architettura alla Z di zoologia, che sviluppi non solo competenze critiche ma anche creative, non solo analitiche, ma anche sintetiche, per avere persone che non siano solo utenti ma anche disegnatori, non solo consumatori ma anche clienti, non solo seguaci (followers) ma anche cittadini.
Questa pedagogia deve confrontarsi con un paradosso: dobbiamo preparare le nuove generazioni per un mondo che non possiamo prevedere, usando strumenti che diventeranno obsoleti prima che loro finiscano gli studi. La risposta non può essere tecnica: insegnare questo o quel linguaggio di programmazione, questa o quella piattaforma. Deve essere semantica: sviluppare la capacità di leggere e scrivere ogni tipo d’informazione, per saper creare, interpretare, criticare e migliorare il capitale semantico.
Come già anticipavo, c’è una trasformazione in corso che merita particolare attenzione: non siamo più solo produttori di capitale semantico, siamo diventati anche – e sempre più – suoi designer e architetti. Questa è una novità nella storia umana. Prima, il capitale semantico cresceva organicamente, attraverso l’uso, la tradizione e l’evoluzione culturale. Ora, lo progettiamo in modo molto più facile, accessibile, diffuso, veloce, anche grazie a “infrastrutture sintattiche” messe a disposizione dal digitale, dai database all’AI. Questo passaggio da produttori ad architetti comporta una responsabilità inedita. Quando progettiamo un sistema di categorie, definiamo una struttura dati, creiamo un’interfaccia, non stiamo solo organizzando informazioni: stiamo plasmando le possibilità future di creazione di significato. È come se fossimo passati dall’essere giardinieri che coltivano piante a ingegneri genetici che progettano nuove specie. Il potere è immenso, ma lo sono anche i rischi.
La cura del capitale semantico diventa una questione centrale.
Non basta produrlo o progettarlo; dobbiamo mantenerlo, nutrirlo, proteggerlo dall’entropia e dalla corruzione. Questa cura ha dimensioni multiple: tecnica (per esempio, per mantenerne l’integrità e la ricchezza), sociale (per esempio, per preservare le comunità di pratica che generano significato), culturale (per esempio, per tramandare le tradizioni interpretative) e etica (per esempio, per garantire che il significato non sia monopolizzato o manipolato). La trasmissione del capitale semantico assume forme nuove nell’era digitale. Non è più solo verticale, da una generazione all’altra, ma anche orizzontale, attraverso reti e comunità. Non è più solo esplicita, attraverso l’insegnamento formale, ma anche implicita, incorporata negli algoritmi e nelle interfacce che usiamo quotidianamente; si pensi ai computer games. Ogni click, ogni swipe, ogni query è un atto di trasmissione semantica, anche se non ne siamo consapevoli.

