Angelica De Vito e Fabio Chiusi al Wired Next Fest Trentino 2025:

Dal riconoscimento facciale agli algoritmi predittivi, i confini dell’Unione europea stanno diventando il terreno di sperimentazione per una nuova generazione di tecnologie di sorveglianza. Sistemi che nascono con l’obiettivo dichiarato di gestire i flussi migratori e garantire la sicurezza, ma che in realtà stanno ridefinendo il modo stesso in cui vengono esercitati il controllo e il potere. All’incontro Frontiere della disuguaglianza, organizzato al Teatro Zandonai nell’ambito del Wired Next Fest Trentino 2025 di Rovereto, Fabio Chiusi, giornalista, ricercatore per Algorithm Watch e autore del libro La fortezza automatica ha delineato un panorama tanto inquietante quanto reale: le frontiere come laboratori di sperimentazione, dove vengono messi alla prova sistemi di controllo che altrove non sarebbero accettati. “I migranti sono le cavie di queste tecnologie“, ha spiegato Chiusi, sottolineando come la mancanza di trasparenza e di supervisione democratica rischi di rendere permanenti pratiche nate in un contesto di emergenza.

Nel dialogo con Angelica De Vito, consulente diplomatica delle Nazioni Unite sulle migrazioni climatiche, il tema si è ampliato fino a includere le conseguenze umane di questa trasformazione. Da una parte, il vuoto giuridico che lascia senza protezione milioni di persone costrette a fuggire dai disastri ambientali o dalla crisi climatica, ma non per questo riconosciute come rifugiati dal diritto internazionale. Dall’altra, la crescita di sistemi algoritmici che decidono chi può attraversare un confine e chi no, sulla base di criteri che nessuno può controllare o contestare.

La securitizzazione delle società

Secondo Chiusi, tuttavia, il problema non è la tecnologia in sé. “Questi algoritmi sono strumenti nelle mani di chi vuole discriminare alcune persone rispetto ad altre, ha detto. Va inoltre considerato un importante aspetto politico: gli algoritmi operano ormai in un contesto in cui la paura dell’altro è diventata la principale fonte di consenso e servono a gestire quella paura classificando le persone in categorie come potenziali terroristi, potenziali criminali o portatori di idee radicali. Si tratta di etichette che, dal punto di vista giuridico, non hanno alcun fondamento, ma che incidono concretamente sulle decisioni su chi può attraversare un confine. Il ricercatore ha portato l’esempio del riconoscimento facciale nel Regno Unito, normalizzato proprio perché inizialmente veniva testato solo sulle comunità migranti con la giustificazione di proteggere dal terrorismo.

Dietro la securitizzazione delle migrazioni, ovviamente, si nascondono anche enormi interessi economici, ha spiegato Chiusi. Aziende della difesa e della tecnologia avanzata, come Palantir, hanno progressivamente sostituito i vecchi colossi del settore, costruendo veri e propri imperi basati sulla vendita di sistemi di controllo e sorveglianza, capaci di monitorare e classificare i movimenti delle persone su scala massiva. Questo fenomeno ha, allo stesso tempo, generato un nuovo campo di studi accademici, noto come crimigration, che si concentra sull’analisi di come l’immigrazione venga sistematicamente equiparata al crimine. In questo contesto, centri di ricerca come quello di Oxford documentano come le persone che migrano vengano considerate, di default, potenziali criminali, prima ancora che le loro azioni possano essere valutate, costruendo una narrazione che giustifica strumenti di controllo sempre più invasivi.

Quale ruolo per il diritto internazionale in tutto ciò?

Proprio la mancanza di una definizione internazionale condivisa di migrante climatico rende queste persone particolarmente vulnerabili alle sperimentazioni tecnologiche e agli abusi. De Vito ha sottolineato che, nonostante il fenomeno riguardi già milioni di individui, l’unico riferimento normativo risale al 1982, quando l’Unepi, un’agenzia delle Nazioni Unite dedicata al clima, ha definito i migranti climatici come coloro costretti a lasciare il proprio territorio a causa di emergenze ambientali. Tuttavia, la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, strumento normativo principale a livello internazionale, continua a concentrarsi esclusivamente su persecuzioni politiche o religiose. Ne consegue che chi fugge da siccità, innalzamento dei mari o altre catastrofi ambientali si ritrova in un limbo giuridico, privo di protezione e di strumenti per far valere i propri diritti. Secondo De Vito, il problema però è strutturale: nel senso che il diritto internazionale per come è fatto funziona come una fotografia, che cattura una situazione in un momento preciso, ma quella fotografia può diventare rapidamente obsoleta di fronte ai mutamenti della realtà.

Entrambi hanno concluso con un cauto ottimismo. Esiste ancora una finestra temporale limitata per intervenire, dato che le forme più avanzate di tecnologia ai confini non sono ancora tutte operative nei paesi democratici europei. Ma basta “girare due manovelle e fare due contratti” perché il sistema diventi irreversibile.

Visite totale 1 , 1 visite oggi

CONDIVIDI

Facebook
Twitter
LinkedIn
WhatsApp
Telegram
Reddit
Scorri verso l'alto