Agenti AI? Sì. Ma senza agentività, per carità

È il potere delle etichette: basta una parola elegante su un concetto fragile per trasformarlo, quasi per magia, in verità condivisa. E quindi ecco che un’implementazione tecnico-operativa viene confusa in una vera e propria soggettività emergente. E qui è importante essere chiari: gli agenti artificiali sono un passo importantissimo nello sviluppo dell’AI. Proprio per questo, però, è fondamentale inquadrarli bene. Capirne le funzioni, i limiti, le implicazioni. Perché più li carichiamo di significati impropri, più perdiamo di vista il loro vero potenziale — e i rischi reali che comportano.

Agentività, questa sconosciuta

Cos’è, allora, questa agentività? È la capacità di agire in modo intenzionale, consapevole, finalizzato. È ciò che consente non solo di scegliere tra dire la verità o mentire, tra reagire d’impulso o riflettere, ma anche di farlo sulla base di una volontà, uno scopo, una deliberazione interna. È proprio ciò che segna il confine tra agire e reagire: la capacità di dare senso alle proprie azioni, non solo di compierle.

Insomma: è la qualità dell’agire umano in quanto tale. Non si misura in bit, non si modella in un diagramma Ulm, non si compila in Python. Attribuire agentività a un sistema software è, nel migliore dei casi, un errore concettuale. Nel peggiore, un falso ideologico: perché se una macchina ha agentività, allora è responsabile. Se è responsabile, allora le nostre scelte, anzi, le scelte che gli facciamo fare, sono sue. E noi? Assolti. Deresponsabilizzati. Liberi di puntare il dito contro l’algoritmo, come facevano i bambini con il fratellino immaginario, o peggio vittime dell’algoritmo cattivo che si ribella. Come in un remake distopico di Frankenstein, ma in chiave Silicon Valley, si costruisce così il mito dell’intelligenza artificiale che un giorno, stufa di eseguire comandi, deciderà di alzarsi dalla scrivania digitale per rovesciare il suo creatore.

È un’immagine affascinante, certo, ma completamente fuorviante: perché nessuna macchina desidera, nessun codice cova vendetta, e nessun algoritmo sogna pecore elettriche. Semplicemente, fa ciò per cui è stato progettato. E se fa qualcosa che non ci aspettiamo, la colpa è la nostra.

Ignoranza o mala fede? Questo è il dilemma

Se uno studente al primo anno inciampa su “agente” e “agentività”, si può sempre correggere con tono paziente. Ma se a farlo è un c-Level a scelta di una grande azienda tecnologica, o il consulente strapagato che scrive i white paper per Bruxelles, allora due sono le possibilità: o non sa cosa dice (ma come fa a ricoprire il suo ruolo?), oppure lo sa benissimo. E lo dice lo stesso. Perché far credere che un agente abbia agentività non è solo una svista semantica. È un atto politico. E come ogni atto politico che si rispetti, ha le sue derive.

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