Visconti in fuga dall’indie

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Quattro aspiranti giornalisti e un’intervista last minute in una domenica milanese. Si respirano emozioni contrastanti attorno al tavolo della sede di Rockit: panico, agitazione, entusiasmo, imbarazzo, curiosità. La nostra cavia di oggi è Visconti, giovane artista al confine tra la musica d’autore e il post punk, che si è gentilmente prestato a questo esperimento per il corso di giornalismo musicale organizzato da Better Days.

Visconti arriva in redazione con il cappellino sulla testa e la maglietta dei The Garden, saluta e ringrazia per l’invito e quando gli viene offerta una fetta di cheesecake su un piattino da feste di Wish (il film d’animazione, non il sito cinese) l’accetta volentieri, lasciandoci altri cinque minuti per riascoltare i suoi brani ed organizzare meglio le domande. Così, armati di cuffiette, penna e block notes, ci annotiamo tutto ciò che vorremmo chiedergli ricordando i preziosi consigli di Dario Falcini e Vittorio Comand, rispettivamente direttore e redattore di Rockit, che ci seguiranno durante tutta l’intervista, mentre l’atmosfera si è fatta già più distesa e rilassata.

Quella che segue è quindi una lunga chiacchierata con un artista che non ama le etichette e che non vuole essere catalogato sotto un solo genere: Valerio Visconti, classe 2000, cerca l’equilibrio perfetto per conciliare vita personale e vita lavorativa un po’ come fa con il cantautorato italiano e il post punk. Tra fughe notturne ad Aqui Terme e caffè al bar, ci presenta il suo nuovo album Boy di ferro.

Dopo DPCMBoy di ferro. I titoli dei tuoi album sono molto evocativi. Come li scegli?

In entrambi gli album le esperienze è una cosa che è venuta a posteriori. Mi piace arrivare al finale e non sapere come si chiamerà. Ammetto che c’è anche un po’ di pigrizia (ride, ndr). DPCM si lega anche al momento esatto in cui l’ho scritto e mi piaceva la frontalità del titolo con quattro lettere. Boy di ferro è stato più difficile, più interiore ed emotivo. C’è la visione del maschio accompagnata dalle fragilità e tutte le debolezze vissute nella formazione di questo “boy”, che poi sono io. 

In DPCM ti ci ritrovi ancora o acquista un sapore e un significato diverso?

Escludendo la parte tecnica, che adesso farei diversamente, rimane senz’altro una fotografia ancora valida di quel momento. Quel contenitore che è stato il lockdown per me è ancora emotivamente caldo, anche a causa di episodi personali famigliari che hanno scompigliato l’ordine delle cose, come la separazione dei miei.

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In cosa Boy di ferro è più interiore?

Nasce da una relazione finita. Una fine che all’inizio ha provocato un sacco di rabbia, come se dovessi affrontare un lutto, una scomparsa. È stato un rapporto che mi ha messo molto in discussione proprio come Valerio, sul come mi sento all’interno delle relazioni in generale. Nei pezzi più incazzati ho catalizzato la mia impulsività. Sono uno che poi però tende a raccogliersi e riflettere, si sente anche nell’album con pezzi più malinconici, come Sotto trema.

Quali sono i tuoi generi di riferimento?

Il bacino più grande è sempre quello del punk, specialmente post punk, perché genera una variabile di possibilità a disposizione più ampia. Può avere derive folk, più aggressive, anche quelle più elettroniche mi attirano molto. Nel caso di Boy di ferro ho smesso di ascoltare musica cantautoriale italiana, perché ho sentito il bisogno di tradurre nella mia musica qualcosa di più internazionale. Poi magari ascolto anche cose italiane, senza subire troppo il modo di scrivere molto narrativo che ha, per esempio, l’indie.

In che modo sentivi che l’indie rischiava per te di diventare un vincolo?

Prima del progetto Visconti scrivevo in inglese, quando sono passato all’italiano ho avuto una fase in cui ho provato ad associarmi a quel mondo. Poi però in Italia si tende sempre a catalogare per generi musical, dove all’estero magari si mette sotto alternative. Mi sono ritrovato così, specialmente nei live, ad essere circondato di band indie che amo ma con cui avevo poco in comune se non questa forma di scrittura cantautorale. In questi eventi ho avuto la sensazione di non essere capito. Faccio un genere di musica in cui amo espandermi in più direzioni, per cui la definizione che il progetto Visconti sia indie mi sta stretta.

Come vivi l’esposizione di quello che pensi e provi davanti a tutti?

Pensando agli ultimi live, al Poplar a esempio, dove ho suonato prima dei Viagra Boys, inizialmente ero preso dall’ansia di performare. Se poi sul palco tutto fila liscio non mi concentro su chi sta guardando: nella band ci sono i miei migliori amici, mi lascio pervadere dal benessere che mi dà suonare.

 

Parlando di ansia, in Battesimo oscuro si percepisce la paura di perdere l’anima “tagliente” della giovinezza. Senti di stare crescendo?

Battesimo oscuro parla di cambiamento e, a posteriori, mi rendo conto che al suo interno ci sia la paura di crescere e di perdere quel romanticismo di fondo. Prima vivevo le emozioni con più intensità, sia nella depressione che nell’entusiasmo. Fra i motivi che mi hanno spinto a scrivere questo pezzo c’è l’essere divenuto consapevole che esistono una serie infinita di sfumature fra il semplice stare bene o stare male. Tutto questo può essere sì conseguenza del diventare grande, ma nel senso che intorno a me vedo cambiare tutto: gli amici, le loro ambizioni, le mie ambizioni.

Hai paura di questo cambiamento?

Ho paura di perdere quel fuoco iniziale. Ho iniziato a scrivere musica mentre studiavo, quando la mia vita aveva una certa linearità. Adesso è cambiato tutto. In qualche maniera devo campare e con la musica non posso, ancora. Spero un giorno di poter vivere di questo, anche solo con attività connesse con il mondo musicale, ma d’altra parte diventa sempre più difficile trovare il momento in cui suonare. La perdita del fuoco non la posso quindi attribuire solo ad una crescita in generale, ma ad una serie di fattori che rendono molto più complesso il tuo star male o il tuo stare bene. È questa la sensazione che attribuisco a Battesimo oscuro, anche se ho scritto il brano per un altro motivo.

Hai detto che ancora “non puoi vivere di musica”. Una critica verso il sistema o un auspicio per il futuro?

Mi piacerebbe un sacco poter vivere di musica, attualmente provo a farlo suonando in 5 band contemporaneamente. Tuttavia mi sto rendendo conto che forse non sarà il mio unico obiettivo. Le energie che prima mettevo solo sulla musica, adesso le sto distribuendo su progetti creativi diversi e la cosa mi piace molto! Anche un guru della musica come Rick Rubin diceva di non dedicarsi unicamente alla musica, in quanto il tornaconto ti porta soltanto frustrazione, piuttosto che benessere e libertà. Ripensandoci adesso, non so se me lo auguro per il futuro… D’altra parte però, poter affermare “vivo di musica”, implica che le cose stiano andando molto bene. Non vi nego che vorrei poter essere davanti al bivio per poter decidere, ma di fatto ancora non è così.

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Com’è oggi la vita a Milano di un musicista e come occupi il tuo tempo?

Passo un sacco di tempo a guardare gli annunci su Indeed cercando un lavoro. Magari che mi occupi anche tutta la giornata, perché no? Pensavo ad esempio alle consegne con il furgoncino. Mi sono reso conto che fare lavori di progettazione e logistica (che è l’approccio che ho anche con la musica) mi pesa molto meno, quasi mi diverte! Vorrei vincere la paura di non avere tempo da dedicare alla musica. Nel settore gira questa retorica secondo la quale bisogna esserci a tutti gli eventi e farsi vedere. Io sono fortunato, ho un po’ la mia zona di confort: tutti i miei amici sono musicisti e quindi ho la possibilità di essere sulla scena senza troppe preoccupazioni. Anche la mia routine sta cambiando molto: dopo essermi laureato in design del suono qui a Milano mi capita di cimentarmi in diversi lavori a progetto riguardanti questo settore.

All’atto pratico ti mantieni con questo lavoro?

Con il sound design e lavori connessi. Spesso faccio il  turnista, adesso suonerò con Montag, andrò in tour con Generic Animal e ho fatto sostituzioni per Auroro Borealo. L’aver dovuto imparare a suonare tutto da solo in DPCM mi ha permesso di poter switchare da uno strumento all’altro senza problemi. C’è da dire che suonare in tanti contesti è un grande impegno e talvolta sento di avere meno energia creativa da dedicare al mio progetto solista.

Anche uscire di casa e vivere esperienze per stimolare la creatività.

Rimanere chiusi in camera a ripetersi: “Oggi sono creativo! Scriverò un sacco di pezzi!” non ti porta da nessuna parte. Adesso che la mia stanza è un casino essendo in mezzo al trasloco, passo le giornate imbiancando i muri e fissando pannelli fonoassorbenti. Sento di avere un serbatoio pieno e sto aspettando il momento in cui sarà tutto apposto per poter riversare tutto e far uscire qualcosa.

Nel tuo primo album DPCM parlavi di provincia, del disagio e delle promesse non mantenute. Cosa ti ha deluso?

In quel caso ero costretto per il lockdown. Dopotutto non avevo mai provato ad andare in una città grande. Poi per me la provincia corrispondeva ad una serie di ideali di stabilità e normalità anche relazionale. Con la quarantena mi è crollata la terra sotto i piedi. Ho vissuto la separazione dei miei e il vivere a stretto contatto con questo cambiamento, mi ha provocato delusione e grande incazzatura. In provincia la gente cerca molto di più una stabilità psicologica fatta di abitudini e quotidianità, che molto spesso sfociano in una visione chiusa del mondo.

 

Cosa ti rimane di quella provincia?

Un sapore amaro. Anche i paesaggi della mia città, Aqui Terme, mi rimandano alla decadenza. Tutto lì cade a pezzi, ovunque vedi ruderi degli ex stabilimenti termali oramai falliti. C’è da dire che è stato anche divertente, ricordo queste fughe notturne con gli amici alle terme, in mezzo al vapore di qualche vasca ancora in funzione, atmosfere dark! Quelle rovine però le associavo ai ruderi della mia famiglia. Poi c’era la nebbia della pianura, il non esserci un cazzo da fare… Avevo bisogno di fuggire e di scoprire quel mondo musicale in cui fino ad allora mi ero rifugiato. Prima di venire a Milano non avevo mai visto un concerto punk, per me esistevano solo su YouTube o sulle cassettine di che mi facevo spedire da Bandcamp. Non vedevo l’ora di scoprire un ambiente di cui mi ero creato un mito. Poi ovviamente adesso mi lamento di Milano come tutti. Qui ho una mia zona di comfort: gli amici che frequento tutti i giorni, il baretto di fiducia in cui sto bene.

Hai ricreato la provincia a Milano, insomma.

Effettivamente sì. Spesso con i Giallorenzo ci ritroviamo a cercare ambienti intimi, magari un ristorante di anziani in periferia che ti serve la cotoletta alla milanese.

Andare in trattoria sia un nuovo modo di essere punk?

Io dico di fare il post punk, però non credo di esserlo fino in fondo, nemmeno di frequentare posti propriamente da punk. Anche perché non sono un vero punk. Faccio musica provocatoria, ma nella vita di tutti i giorni mi comporto in maniera normale, cercando approvazioni nel modo in cui lo farebbe una persona normale. Per questo frequento posti che mi rimandino a questa tranquillità. Non credo di frequentare posti davvero punk. Come per i generi musicali stessi ormai il concetto di punk è molto fluido. Anche quando vado al concerto al Cox 18 non vedo i punkettoni con la cresta.

Se qualcuno ti dicesse che hai uno spirito punk, come reagiresti?

Il punk è un movimento con una sua epoca e mille sfumature. Però amo il punk per la sua capacità di incanalare emozioni forti come rabbia e ribellione. Mi piace la sua attitudine provocatoria, il modo in cui può dare fastidio con la sua rumorosità. In questo senso, mi sento punk. Ma non vado certo a fare sgambetti alle vecchiette (ride, ndr).

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Come nascono i tuoi testi?

Il mio grande limite è che non sono un grande lettore, ma ho sempre ascoltato tanta musica. Mi ispiro molto a Paolo Conte, che per me è un maestro. Anche lui è un po’ “trap” a modo suo (ride, ndr). Mi piace come riesce a raccontare mille storie diverse nello stesso brano. È ciò che cerco di fare: essere specifico, ma allo stesso tempo lasciar spazio all’ascoltatore per interpretare. L’ispirazione per le immagini nasce dal fascino per l’oscuro, il proibito. Mi piace usare immagini forti, come gli omicidi, perché credo che aiutino a rappresentare la realtà in cui viviamo e, in qualche modo, mi permettono di esorcizzarla. È un continuo flirt tra linguaggio e immagini, un modo per parlare di me.

Un fascino per l’oscurità che richiama il modo di scrivere di Marilyn Manson. C’è qualcosa di lui nelle tue influenze?

Lui, con i Queens of the Stone Age e l’hard rock in generale, fanno parte del mio background musicale, anche se adesso mi piace fare l’hipster (ride, ndr). Cerco di portare elementi rock nei miei brani, soprattutto negli assoli. Poi mi ispiro a band come i Pavement, i Weezer, ma anche al cantautorato americano di Neil Young e Alex G. Un’altra influenza forte viene dal lo-fi punk e dal punk hardcore dei primi anni 2000, che ha segnato i miei anni del liceo. Mi ha insegnato a canalizzare e intellettualizzare la rabbia. Poi ci sono anche il post punk e la dark wave, che si riflettono molto nel rapporto tra basso e chitarra nei miei pezzi.

Che tipo di pubblico ti aspetti ai tuoi concerti?

Mi piacerebbe un pubblico giovane. I live che sono andati meglio sono quelli in cui c’erano ragazzi che pogavano sotto al palco. Mi piace quando si crea quell’energia pura, diretta. Mi sento ancora un ragazzino, e quando c’è qualcuno che rispecchia quella stessa energia è fantastico.

L’intervista è stata interamente realizzata dagli studenti e dalle studentesse del corso di giornalismo musicale della Better Days School: Lorenza Arduini, Noemi Amato, Samir El Bibas, Valerio Mariotto.


L’articolo Visconti in fuga dall’indie di La classe della Better Days School è apparso su Rockit.it il 2024-10-21 11:53:00



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