Per anni Le facce della morte (Faces of Death)è stato più di un semplice film: è stato un oggetto proibito, un titolo “maledetto” che circolava come una leggenda urbana, custodito nelle retrovie delle videoteche o scambiato di nascosto tra adolescenti affamati di brividi estremi. In alcuni Paesi — come Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda — fu ufficialmente censurato, vietato o sequestrato. In altri, venne boicottato dagli esercenti stessi, convinti che quel mix di immagini scioccanti fosse un confine da non oltrepassare. Eppure, proprio grazie a questi divieti, Faces of Death è diventato un film di culto assoluto: un’esperienza che, per anni, quasi nessuno poteva vedere, ma tutti conoscevano.
Uscito nel 1978 e firmato da John Alan Schwartz, il film si presentava come un inquietante “documentario” guidato dal fittizio patologo Francis B. Gröss, interpretato da Michael Carr, il cui unico scopo era mostrare al pubblico “la morte in tutte le sue forme”. La particolarità — e la ragione della sua fama temibile — sta nella natura ibrida del materiale: circa il 60% delle immagini è reale, mentre il resto è frutto di ricostruzioni, effetti speciali e trucchi cinematografici. Il confine tra vero e falso è così sottile da rendere l’esperienza profondamente disturbante ancora oggi.
Lo spettatore passa da scene di chirurgia reale a riprese di incidenti, catastrofi naturali, crudeltà sugli animali, esecuzioni e immagini provenienti perfino dall’Olocausto. In mezzo, trovano spazio sequenze leggendarie come la presunta “scena della scimmia”, da anni al centro di dibattiti, e varie ricostruzioni così grezze, sporche e credibili da alimentare il mito che Faces of Death fosse composto interamente da materiale autentico. La sua estetica da archivio proibito e la totale mancanza di mediazione emotiva lo trasformano in un film che sembra più un atto di voyeurismo che una semplice opera cinematografica.
Negli anni ’80 il Regno Unito lo inserisce tra i famigerati “video nasties”, la lista nera dei film considerati troppo violenti o moralmente pericolosi. In Australia e Nuova Zelanda il divieto diventa ancora più rigido. Anche negli Stati Uniti molte videoteche si rifiutano di distribuirlo. E intanto, come spesso accade, la censura accresce il mito: copie pirata, racconti esagerati, studenti che lo guardano durante feste notturne convinti di assistere a vere morti. In un caso, nel 1986, un adolescente coinvolto in un omicidio arrivò a dichiarare di essere stato “influenzato” da Le facce della morte, contribuendo ad alimentare la sua reputazione oscura.
Col tempo, però, la storia si complica. Non solo il film continua a trovare un pubblico curioso di spingersi oltre i limiti, ma diventa anche un seme fondamentale per l’evoluzione del cinema horror. Senza Faces of Death, mockumentary come Cannibal Holocaust, il found footage moderno e persino parte della cultura dei social shock videos non sarebbero mai esistiti nello stesso modo. Ha mostrato per primo che l’orrore più sconvolgente non nasce necessariamente dalla finzione, ma da ciò che assomiglia pericolosamente alla realtà.
Oggi Le facce della morte è di nuovo al centro dell’attenzione grazie al remake prodotto da Legendary, con Barbie Ferreira e Dacre Montgomery, che aggiorna il concetto al mondo digitale: una moderatrice di contenuti scopre crimini reali ispirati ai video che filtra. Una premessa che rilegge lo stesso nucleo inquietante del film originale: la nostra ossessione morbosa per ciò che è proibito, per ciò che supera i limiti, per ciò che non dovrebbe essere visto.
E così, dopo anni di censure, divieti e controversie, Faces of Death resta un film maledetto non perché mostra la morte, ma perché riflette una parte scomoda di noi: il desiderio di guardare, anche quando sappiamo di non doverlo fare.
Fonte: Collider
© RIPRODUZIONE RISERVATA


