Questo film italiano ha trasformato lattesa in una delle esperienze più potenti del nostro cinema

Il deserto dei Tartari (1976) di Valerio Zurlini è un film che trasforma l’attesa in esperienza sensoriale e morale. Alla Fortezza Bastiani, avamposto ai margini del nulla, una guarnigione veglia da anni su un orizzonte immobile in attesa di un nemico che non arriva mai. Il tenente Giovanni Battista Drogo, interpretato da Jacques Perrin, varca quella soglia convinto di restare poco e scopre invece che la ritualità militare, i turni, le parate, le ipotesi di pericolo e i miraggi di gloria sanno trattenere più di qualunque catena.

Zurlini porta a compimento la sua poetica dell’assenza e della disillusione con un’opera radicale per misura, severità e coerenza. L’adattamento dal romanzo di Dino Buzzati non punta alla fedeltà letterale dello spirito metafisico, ma concretizza l’allegoria in un mondo militare rigorosamente organizzato, dove regole e gerarchie sostituiscono, quasi per ipnosi, il senso stesso della vita.

La scelta delle location è decisiva: l’Arg-e Bam iraniano diventa la Fortezza Bastiani, architettura che sembra scolpita nel vento. La fotografia di Luciano Tovoli disegna un universo di ocra, grigi e neri sotto un cielo duro e terso: la luce scava i volti, cristallizza gli spazi, astrae i movimenti. Il deserto attorno alla fortezza non è solo geografia, è una zona mentale dove si proiettano desideri, paure, autoinganni. Ogni inquadratura lavora per sottrazione, trasfigurando il reale in simbolo: la preghiera nel cortile, i cambi della guardia, gli sguardi lanciati oltre le mura. Le musiche di Ennio Morricone, marziali e circolari, tengono insieme rito e inquietudine, come una pulsazione che non concede catarsi.

Il film convoca un ensemble internazionale impressionante: oltre a Perrin, spiccano Max von Sydow, Laurent Terzieff, Philippe Noiret, Jean-Louis Trintignant, Fernando Rey, Francisco Rabal, Vittorio Gassman e Giuliano Gemma. Non tutti viaggiano sulla stessa frequenza emotiva, e questa eterogeneità talvolta produce attrito; ma Zurlini orchestra il gruppo come un corpo unico, dove ogni figura incarna una declinazione dell’attesa: la disciplina che si fa abitudine, il coraggio che si corrode, l’ambizione che si aggrappa a cerimonie svuotate di scopo. Gemma sorprende per misura e durezza, Gassman impone un’autorità quieta, von Sydow scolpisce un destino di malinconia.

Zurlini sfrutta la lentezza per far sentire la pressione del tempo che non passa e del senso che non arriva. L’intreccio avanza per micro-variazioni, soste, esitazioni, minime fratture nel cerimoniale. Le sequenze più dialogate tendono a irrigidirsi, ma quando il film respira per immagini trova slanci di pura potenza visiva. Momenti come la presentazione di Drogo agli ufficiali o la liturgia della preghiera, fino al suicidio fuori campo di Hortiz, restano impressi per precisione grafica e eco emotiva.

Il percorso di Drogo è una curva che sale verso un’ipotesi di compimento e si spezza un attimo prima dell’arrivo. Quando il segno dell’attacco finalmente compare oltre l’orizzonte, l’uomo che lo ha atteso tutta la vita è ormai fuori dal cerchio: malato, congedato, escluso dalla propria occasione. L’epilogo non cerca lo shock, ma un’umiliazione sottile e devastante che rovescia il senso dell’eroismo. Il film afferma che l’attesa dell’evento, più dell’evento stesso, modella le esistenze fino a svuotarle; e che la vita spesa nel futuro ipotetico perde il presente che la sostiene.

Ultimo lungometraggio di Zurlini, Il deserto dei Tartari è insieme testamento estetico e ritratto morale di un’Italia che, dopo il boom e le disillusioni, sente la tentazione della stasi. È anche un’opera che, vista oggi, parla con forza di lavoro, rituali aziendali, burocrazie totalizzanti, vite rinviate a un domani che non arriva. Più che “trasporre” Buzzati, Zurlini lo traduce nel proprio alfabeto: togliendo indeterminatezza e fissando la vicenda in un contesto storico concreto, rende tangibile l’allegoria e ne mostra l’usura sul corpo degli uomini.

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