Il più grande colpo di scena della storia del cinema sci-fi è avvenuto 57 anni fa (e nessuno è ancora riuscito a batterlo)

Ci sono finali che cambiano il modo in cui guardiamo un film, e poi c’è Il pianeta delle scimmie. Uscito nel 1968, il capolavoro diretto da Franklin J. Schaffner non solo ha rivoluzionato la fantascienza, ma ha consegnato alla storia il più grande colpo di scena mai apparso sul grande schermo. Cinquantasette anni dopo, nessuno è ancora riuscito a eguagliarne la potenza, la precisione narrativa e l’impatto emotivo.

Tratto dal romanzo di Pierre Boulle, il film segue l’astronauta George Taylor (interpretato da Charlton Heston), sopravvissuto a un atterraggio di fortuna su un pianeta sconosciuto nell’anno 3978. Presto scopre che il mondo in cui si trova è dominato da scimmie intelligenti e organizzate, mentre gli esseri umani vivono ridotti allo stato primitivo, incapaci perfino di parlare. Taylor viene catturato, umiliato, studiato come un animale, ma trova due alleati inattesi: gli scienziati Zira e Cornelius, due scimpanzé che sfidano l’ordine costituito per aiutarlo a fuggire.

Il film procede come una parabola sull’arroganza umana, fino al suo finale leggendario: Taylor, finalmente libero, arriva nella “Zona Proibita”. La telecamera lo segue mentre attraversa una spiaggia deserta, finché davanti a lui compare un relitto familiare — il volto spezzato della Statua della Libertà, semi-sepolta nella sabbia. In un solo istante, ogni certezza crolla: Taylor non è su un pianeta alieno, ma sulla Terra stessa, distrutta da secoli di guerra nucleare. Il suo urlo disperato (“Dannati voi tutti!”) riecheggia come una condanna universale.

Ancora oggi, quella scena conserva un’aura di perfezione quasi mitica. Non servono effetti digitali, né spiegazioni: basta un’immagine per ribaltare il senso dell’intero film. Schaffner costruisce il colpo di scena con intelligenza, disseminando indizi — manufatti umani, resti di civiltà perdute, avvertimenti criptici del dottor Zaius — ma senza mai rivelare apertamente la verità. Lo spettatore, come Taylor, arriva alla consapevolezza solo all’ultimo, travolto dallo stesso sgomento.

Il twist di Il pianeta delle scimmie è rimasto un modello assoluto per generazioni di registi. Negli anni successivi, molti hanno provato a imitarlo: dal distopico Soylent Green, con la sua rivelazione cannibale, fino a The Sixth Sense di M. Night Shyamalan, che nel 1999 ha riscritto la grammatica del mistero moderno. Ma nessuno è riuscito a replicare quella miscela perfetta di suspense, simbolismo e tragedia. L’immagine della Statua della Libertà, sconfitta e mutilata, è diventata l’emblema di un’umanità condannata da se stessa, più potente di qualsiasi effetto speciale.

Oltre al suo valore narrativo, il finale del film di Schaffner è anche un grido politico, un monito contro l’autodistruzione. Nel pieno della Guerra Fredda, il regista trasformò una storia di fantascienza in una riflessione sull’orgoglio e sulla follia dell’uomo moderno. Quel grido sulla spiaggia non è solo di Taylor, ma di un intero pianeta che prende coscienza del proprio destino.

A più di mezzo secolo dalla sua uscita, Il pianeta delle scimmie continua a parlarci con forza e lucidità. E mentre Hollywood sforna nuovi reboot e sequel, nessuno è riuscito a battere quel finale. Forse perché, semplicemente, non si può superare ciò che ha ridefinito per sempre il concetto stesso di colpo di scena.

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