L’albero degli zoccoli è la Palma d’Oro 1978 che ha ridefinito il modo di raccontare la vita contadina e che, a distanza di quasi mezzo secolo, continua a parlare con una limpidezza rara. Ermanno Olmi sceglie un approccio che unisce la precisione del documento etnografico alla potenza della finzione e, seguendo il ciclo delle stagioni nella campagna bergamasca di fine Ottocento, costruisce un affresco di quattro famiglie di mezzadri che vivono tra fatica, devozione e una quotidianità fatta di gesti minuti. Il suo realismo non è mai compiaciuto, e proprio per questo risulta più incisivo: la durezza dell’assetto padronale, la precarietà, l’assenza quasi totale di ribellione collettiva emergono attraverso situazioni concrete, dettagli apparentemente marginali, silenzi e sguardi.
La storia che dà il titolo al film è esemplare: un padre taglia un albero lungo il fiume per ricavarne un paio di zoccoli nuovi al figlio che va a scuola. Quando il padrone scopre l’albero abbattuto, la famiglia viene cacciata senza appello. La comunità resta muta. In questo gesto minimo, registrato con la calma di un piano fisso, c’è tutta la violenza di un sistema che pretende due terzi del raccolto, possiede case, stalle, attrezzi e bestiame, e regola la vita dei contadini persino nei bisogni più elementari. La messa in scena asciutta, fatta di inquadrature ferme, leggere panoramiche, assenza di attori professionisti, restituisce la verità dei corpi e delle voci del territorio bergamasco. La musica di Bach, usata con misura, accompagna immagini che alternano l’oscurità delle notti campestri al biancore accecante dei campi innevati.
Rispetto a Novecento di Bernardo Bertolucci, con cui spesso viene accostato, il film di Olmi procede nella direzione opposta. Dove Bertolucci costruisce una grande epopea ideologica con star e una fotografia spettacolare, Olmi riduce la scala, rinuncia all’enfasi, lascia che siano i gesti a far sedimentare il senso. Il conflitto di classe non è assente, ma filtrato: un comizio socialista diventa occasione per ritrarre la miopia di chi si lascia distrarre da una moneta trovata a terra; la gerarchia tra padrone e contadini si percepisce nella ritualità del pesaggio del mais e nella reverenza attonita per un’aria d’opera ascoltata di lontano. È un cinema politico proprio perché lavora per accumulo di segni, invita a leggere, più che a essere guidati.
Tra le molte microstorie che punteggiano il racconto, spiccano la vedova che mantiene quattro figli lavando al fiume; l’anziano che insegna alla nipote a far maturare i pomodori in anticipo per sopravvivere con qualche vendita al mercato; la giovane operaia che si sposa e, su consiglio della zia suora, accoglie un bambino affidato dalla beneficenza; il piccolo che percorre chilometri a piedi per andare a scuola, sottraendo tempo alla fatica dei campi. La dimensione religiosa è parte dell’identità della comunità: rosari, sermoni, un cristianesimo ruvido e quotidiano che Olmi osserva senza sarcasmo, pur mantenendo uno sguardo critico verso l’ordine che soffoca ogni desiderio di riscatto.
Questa postura, spesso fraintesa, ha alimentato discussioni: c’è chi ha visto nel film una morbidezza verso Chiesa e potere, e chi, al contrario, un sottotesto “valoriale” compatibile con un certo cattolicesimo ufficiale. In realtà Olmi lavora su un piano più antropologico che ideologico. Torna alle origini, ai racconti ascoltati da bambino nelle stalle e sotto i portici, e ritrova nella terra l’unica risposta possibile. La sua formazione alla Edisonvolta, tra decine di documentari industriali, e i primi lungometraggi come Il posto e I fidanzati, hanno affinato uno sguardo capace di far convivere osservazione e costruzione narrativa senza perdere mai credibilità.
Il suono è un altro elemento decisivo: i canti durante il lavoro, il fruscio del vento nei campi, l’incanto ingenuo davanti al grammofono del padrone. In due scene memorabili la musica diventa epifania e misura della distanza sociale. Così come lo stupore del padre quando il figlio gli racconta del “mondo invisibile” nella goccia d’acqua vista al microscopio: un bagliore di conoscenza che apre una breccia in una vita altrimenti interamente consacrata alla sopravvivenza. Sono momenti che restituiscono dignità e complessità a un universo spesso ridotto a stereotipo.
L’albero degli zoccoli nasce in un’Italia in cui la televisione pubblica sostiene ancora il cinema più rischioso e in cui un autore come Olmi può permettersi un film lungo, parlato in dialetto, senza compromessi produttivi. È un progetto povero nei mezzi e ricchissimo nell’esito, coerente con una carriera che ha oscillato tra il radicamento popolare e incursioni inattese (La leggenda del santo bevitore, Cantando dietro i paraventi), sempre controcorrente. Che oggi sia meno celebrato di quanto meriti dice molto sulla nostra memoria culturale: se fosse stato francese, probabilmente lo considereremmo un pilastro imprescindibile del canone europeo. Resta invece, paradossalmente, un capolavoro contadino che il tempo non ha addomesticato: duro, pudico, luminoso.
Riguardarlo oggi significa anche rimettere a fuoco questioni che l’Europa non ha risolto: il rapporto tra produzione agricola e industria, tra tutela ambientale e sviluppo, tra comunità e mercato. Ma, soprattutto, significa riascoltare il battito di una civiltà che viveva di cicli e di necessità, e che Olmi filma senza nostalgia né compiacimento, con un rispetto che è già, di per sé, una presa di posizione. In quell’albero abbattuto per un paio di zoccoli c’è la traccia di una sconfitta, ma anche la prova di un gesto d’amore.
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