L’intelligenza artificiale ha una coscienza?, si è chiesto un gruppo di filosofi. Ecco che risposte sono venute fuori

La questione dell’innesco è così complessa che nel mondo filosofico viene definita hard problem: questa fortunata denominazione si deve a David Chalmers, docente australiano, professore alla New York University, che a dispetto dei quasi sessant’anni non ha perso l’aplomb giovanile da surfer. Chalmers si aggira alla conferenza cretese con aria rilassata – la fortuna di essere un filosofo è di non doversi annodare la cravatta. Il suo contributo principale alla riflessione è stato scritto in giovanissima età, poco dopo il dottorato.

Secondo il suo ragionamento, che esista un problema hard presuppone, ovviamente, che ne esistano di più semplici (easy). Facili? Non proprio. Per dirla con lo psicologo cognitivo Steven Pinker, e avere un’idea della complessità che caratterizza anche questi ultimi, “è facile come dire che lo è curare il cancro o andare su Marte. Vale a dire: gli scienziati bene o male sanno cosa cercare, e con abbastanza risorse mentali e fondi, ce la faranno probabilmente entro la fine di questo secolo”. Ma non certo domani.

Qualche esempio di easy problem? Spiega Pinker che potrebbe essere l’inconscio freudiano, o funzioni come il battito cardiaco, comandate da qualche parte nel cervello, ma del tutto involontarie e lontane dalla coscienza.

L’hard problem, prosegue invece, è l’esperienza soggettiva. Per dirla con Louis Armstrong: Se hai bisogno di chiedere che cos’è il jazz, non lo capirai mai. In parole povere, chiosa lo psicologo, il cosiddetto hard problem consiste nello spiegare come “l’esperienza soggettiva nasca dalla computazione neurale”. Oppure mettiamola nei termini di Chalmers stesso, dal palco di Creta: “Sapere tutto quello che c’è da sapere sul cervello o su ogni altro sistema fisico non significa conoscere tutto quanto riguarda la coscienza”. Su queste basi, le macchine ne avranno mai una? Tutto sommato, e a certe condizioni, sì, potrebbero arrivarci. Ma non è così semplice.

Viviamo in un’illusione? C’è chi ne è convinto

Se il problema posto da Chalmers è chiaramente di difficile risoluzione, c’è chi lo ritiene addirittura insolubile. Come Keith Frankish, filosofo britannico dell’università di Sheffield. Frankish è radicale: siamo tutti immersi in una gigantesca allucinazione. Due gli assunti chiave che pone: il primo è che la coscienza fenomenologica – cioè soggettiva – non esiste; il secondoè che la coscienza fenomenologica sembra esistere, ma si tratta, appunto, di un’illusione.

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