Il ritmo è quello di un metronomo impazzito: tic-tac-tic-tac, il cronometro del caporeparto, la catena che incalza, il primo piano che schiaccia volti sudati, dita sporche di grasso, occhi persi. Non c’è respiro, solo ripetizione. La fabbrica come incubo lucido: urla, fischi, slogan che rimbombano più che convincere. In questo inferno quotidiano, l’uomo è un ingranaggio e l’ingranaggio è una prigione.
Il film è La classe operaia va in paradiso (1971), capolavoro di Elio Petri che nel 1972 condivide la Palma d’oro a Cannes con Il caso Mattei. Al centro, Lulù Massa (un Gian Maria Volonté monumentale): operaio modello, dopato dall’idea del cottimo, travolto da una macchina che non sa più se lo nutre o lo divora. Un incidente sul lavoro – un dito tagliato – rompe l’ipnosi e spalanca una crisi che è personale e collettiva: scioperi, assemblee, cortei, retoriche contrapposte che spesso non ascoltano nessuno.
Petri costruisce una farsa nerissima che non salva nessuno: non i padroni (quasi sempre fuori campo, coerenti con il proprio ruolo), non i lavoratori, sedotti dal consumo e dalle “vittorie” minime spacciate per conquiste, non i sindacati e i gruppi studenteschi, che litigano sulle briciole e si parlano addosso. È un film claustrofobico e aggressivo, fatto di primi piani troppo vicini, corridoi intasati, sirene e altoparlanti che impongono un lessico autoritario. Ennio Morricone orchestra una partitura che ingloba i rumori industriali, trasformandoli in musica coercitiva.
Il bersaglio, però, è più sottile del “classico” scontro frontale. Petri fotografa il lupo contro lupo dentro la classe: rivalità, invidie, piccoli egoismi che frantumano la solidarietà. E aggiorna Chaplin: se Tempi moderni era l’avviso, qui è l’autopsia di un’allucinazione. La catena non è più caricatura, è ecosistema mentale in cui persino il desiderio è assorbito (televisione ipnotica, fantasie sporche, impotenze private). Il consumismo non arriva come comizio: filtra lateralmente, insinuando una nuova servitù volontaria che alimenta l’alienazione.
Volonté tiene insieme tutto: nel suo volto febbrile scorrono esaltazione produttivista, paura, rabbia, smarrimento. Accanto a lui, Mariangela Melato e Salvo Randone incarnano gli altri poli della spirale: chi nega l’oppressione in nome di una libertà malintesa (“lavoro, quindi sono libera”) e chi, come Militina, annuncia il manicomio come approdo naturale della fabbrica. La regia rifiuta ogni consolazione: niente cartoline, niente catarsi, solo la lucidità di una messa in scena che usa l’iperbole per restituire l’oggettività del conflitto.
E il “paradiso” del titolo? Petri lo lascia in sospeso come metafora feroce: dietro ogni muro abbattuto, spesso, non c’è il prato promesso ma nebbia. La riconciliazione finale tra azienda e sindacato, l’accettazione del cottimo “ritoccato”, la routine che ricomincia: è l’immagine di un ciclo che si chiude su se stesso e interroga ancora oggi il nostro rapporto con il lavoro, la politica, la rappresentazione. Proprio per questo, a oltre cinquant’anni, resta una delle letture più lucide e feroci dell’alienazione moderna: un film che non regala slogan, ma uno specchio spietato in cui l’operaio (e non solo) vede come ci si perde, e quanto sia difficile – forse impossibile – tornare a chiamare “paradiso” ciò che si ottiene.
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