C’è stato un tempo in cui l’animazione giapponese era sinonimo di libertà assoluta: storie adulte, sesso e violenza senza freni, sperimentazioni grafiche che spingevano molto oltre ciò che il pubblico occidentale era abituato a vedere nei cartoni animati. Quei film hanno aperto strade e influenzato registi di mezzo mondo, ma la sensibilità di oggi li rende esperienze difficili, a volte impossibili, da rivedere senza disagio. Temi come la violenza sessuale, la rappresentazione delle donne, stereotipi culturali e razziali erano trattati con leggerezza o usati come puro shock narrativo. Oggi, con un’attenzione diversa al consenso, alla dignità dei personaggi femminili e al rispetto di culture e religioni, molti capolavori di culto si scoprono intrisi di elementi che mettono a dura prova chi guarda. Qui abbiamo raccolto una lista dei casi più “problematici” tra gli anime più famosi.
Ninja Scroll
L’action di Yoshiaki Kawajiri del 1993 è considerato una pietra miliare per l’animazione d’azione: spade, demoni e combattimenti spettacolari che hanno ispirato opere come Samurai Champloo. Ma sotto la superficie patinata c’è un nodo irrisolto: la protagonista Kagero subisce più tentativi di violenza sessuale, inclusa una scena così disturbante che la BBFC inglese la tagliò per anni. Non si tratta solo di immagini crude, ma del modo in cui il film riduce Kagero a strumento narrativo del trauma, senza offrirle reale agency. Un dettaglio che oggi pesa moltissimo sulla visione.
Perfect Blue
Il capolavoro psicologico di Satoshi Kon (1997) racconta la discesa nella paranoia di Mima, idol che abbandona il pop per recitare. La pellicola è un vertiginoso gioco di specchi sulla fama e sullo sguardo del pubblico, ma contiene una scena di stupro simulato resa con tale realismo da confondere finzione e abuso vero. All’epoca fu salutato come rivoluzionario, oggi la stessa sequenza viene spesso accompagnata da trigger warning; critici e studiosi discutono se il film stia criticando o sfruttando la voyeuristica sessualizzazione di Mima. Rimane un cult imprescindibile, ma da affrontare con cautela.
Wicked City
Nel 1987 Kawajiri portava sullo schermo un noir soprannaturale cupo e violento, con agenti umani e demoni in trattative per una fragile pace. Peccato che la narrazione sembri soprattutto un pretesto per scene di violenza sessuale esplicita e creature mostruose che attaccano e umiliano le protagoniste femminili. La stampa americana parlò apertamente di “sadistic, misogynistic erotica”: un’etichetta che spiega perché oggi Wicked City sia visto più come exploitation che come cult visionario.
Violence Jack
Le tre OVA di Go Nagai (1986–1990) sono famigerate per il contenuto estremo: post-apocalisse spietata, massacri e abusi sessuali senza alcuna mediazione. In Australia uno degli episodi fu vietato, nel Regno Unito la BBFC impose tagli pesanti per nudità e torture. La storia stessa è esile: il gigante Jack appare e scompare tra violenze e sopraffazioni. Un titolo di culto per i collezionisti hardcore, ma che oggi resta difficile da giustificare.
Demon City Shinjuku
Più che estremo, datato. Altro titolo di Kawajiri (1988), è un fantasy urbano gotico dove un giovane eroe affronta demoni a Shinjuku. Non è crudo quanto Wicked City, ma tradisce gli anni ’80 in pieno: protagonista femminile ridotta a “damsel in distress”, tensione sessuale usata come cliché e violenza gratuita senza approfondimento. Meno scioccante, ma comunque segnato da stereotipi che oggi fanno storcere il naso.
A Thousand and One Nights
Nel 1969 Osamu Tezuka, il “Dio del manga”, volle reinventare Le mille e una notte in chiave pop e psichedelica. Il risultato è visivamente affascinante ma carico di orientalismo e sessismo: donne ridotte a figure decorative o sensuali, harem caricaturali e un protagonista musulmano che beve vino e mangia maiale, scelta che lo stesso archivio Tezuka segnala come controversa già allora. Un’opera storica e bizzarra, ma che oggi fa riflettere più per i suoi limiti che per l’audacia.
Urotsukidōji: Legend of the Overfiend
Quando si parla di anime problematici, è impossibile ignorare Urotsukidōji (1989). Questo film/OVA ha codificato il famigerato tentacle horror, con scene di stupro tentacolare tanto esplicite che sono state censurate per decenni in diversi Paesi del mondo. All’epoca fece scalpore e aprì la strada a un’animazione senza tabù, ma oggi è soprattutto un documento di eccesso e shock, quasi inguardabile per chi non cerca deliberatamente l’estremo.
Questi film hanno segnato tappe cruciali per gli anime giapponese, ma mostrano quanto siano cambiate le sensibilità. Rivederli può voler dire affrontare contenuti non filtrati, misoginia esplicita o rappresentazioni culturali superficiali. Un’occasione preziosa per capire come l’arte evolve e per guardare con occhi più consapevoli le opere che un tempo ci sembravano solo “cool” o rivoluzionarie.
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