Il cielo è un flusso continuo di oggetti: satelliti, droni, aerei, uccelli. E non smettiamo mai di chiederci se ci sono anche gli alieni. I primi elementi rappresentano ciò che possiamo riconoscere facilmente. Capita però che ci siano anche oggetti volanti non identificati, ovvero ufo potenzialmente extraterrestri. L’aumento dei sensori e delle videocamere ha moltiplicato la quantità di immagini e segnali da elaborare. Ma riconoscere automaticamente ciò che vola sopra le nostre teste è complicato, soprattutto se si cerca anche ciò che non si conosce. È qui che entra in gioco l’intelligenza artificiale. La visione artificiale può scandagliare milioni di fotogrammi alla ricerca di schemi ricorrenti o anomalie. Ma il problema è: come si addestra un algoritmo a riconoscere qualcosa di cui non si ha nessun esempio?
Il metodo dei gatti, applicato agli oggetti volanti
Nel machine learning tradizionale, se si desidera che un modello riconosca un gatto, bisogna immettete migliaia di immagini etichettate di gatti. L’algoritmo apprende così le caratteristiche comuni e impara a riconoscerli in nuovi contesti. Ma con gli UAP (fenomeni aerei non identificati, un tempo noti come ufo), questo metodo non è possibile: non esiste un dataset verificato di oggetti alieni. Perciò il Galileo Project dell’università di Harvard usa un approccio inverso. Invece di cercare direttamente gli UAP, l’algoritmo viene addestrato su ciò che è noto e comune: droni, uccelli, aerei, palloni aerostatici. Un’enorme libreria di video e immagini serve a far capire alla macchina tutto ciò che è normale. Per costruire questo censimento del cielo, il team del college statunitense utilizza immagini reali e sintetiche generate con Blender, un software open-source, elaborate sul cluster di calcolo Cannon di Harvard. L’intelligenza artificiale impara a escludere il conosciuto, così da poter isolare ciò che non rientra nei modelli. È un addestramento per esclusione, basato sull’anomalia. Laura Dominé, fisica con esperienza nel campo dei neutrini, lavora oggi al Galileo Project proprio su questo: raccoglie e classifica migliaia di esempi, costruisce dataset affidabili, sviluppa strumenti per l’analisi in tempo reale. Il tutto abbinato a sensori che catturano immagini in HD, infrarossi, segnali radio, variazioni magnetiche e acustiche. Sono utilizzati anche sensori acustici, analizzatori di spettro a radiofrequenza e una cupola con otto telecamere a infrarossi, che monitorano il cielo 24 ore su 24. Un lavoro tecnico, paziente, e per molti versi pionieristico.
Galileo Project: scienza pubblica e trasparente
Il Galileo Project nasce nel 2021 da un’idea di Avi Loeb, astrofisico di Harvard noto per l’ipotesi—discussa e controversa—che l’oggetto interstellare ‘Oumuamua potesse essere artificiale. Loeb è criticato da alcuni colleghi per privilegiare ipotesi extraterrestri rispetto a spiegazioni più convenzionali, come le comete. Il progetto ha una missione chiara: applicare il metodo scientifico allo studio degli UAP. La domanda di fondo richiama il Paradosso di Fermi: in un universo così vasto, dove sono le altre civiltà oltre a quella umana? Il primo osservatorio del programma è operativo fuori Boston, ma l’obiettivo è costruire una rete globale di strumenti simili. Altri osservatori sono in programma in Indiana, Nevada e Pennsylvania, con l’obiettivo di migliorare il tasso di rilevamento, attualmente al 36% per gli aerei con le telecamere a infrarossi. A differenza dei dati governativi, quelli del Galileo Project sono pubblici e verificabili. Nessuna classificazione militare, nessuna ipotesi a priori. Solo strumenti, dati e metodi riproducibili. Loeb ritiene che l’interesse per gli oggetti non identificati non dovrebbe essere lasciato ai social o alla fantascienza. Serve rigore, e serve una comunità scientifica che non abbia paura di perdere credibilità affrontando il tema.