Funeralopolis, recensione di un cult invisibile
Alessandro Redaelli, regista milanese classe 1991, ha raccontato più volte come il film Funeralopolis sia nato dalla frustrazione e dal desiderio di affermare sé stesso in un mondo del cinema che di solito non dà spazio ai giovani. A soli ventitré anni, con pochi mezzi e nessuna esperienza, Redaelli decide di prendere in mano il racconto della realtà più cruda dell’hinterland milanese: segue per mesi, e poi per anni, due amici – Vash e Felce – protagonisti di una quotidianità fatta di musica rap, rave, droga e una disperata ricerca di senso. Ne esce un’ora e mezza di cinema verità che scuote, colpisce e non fa sconti o prediche. Funeralopolis, censurato e bollato “vietato ai minori di 18 anni”, è stato emarginato dalla distribuzione tradizionale ma negli anni è diventato un autentico cult.
Dopo molte difficoltà, il film esce dal 12 luglio, finalmente su Prime Video Channel IWONDERFULL, ma può essere visto anche dal vivo nella speciale proiezione-evento dell’11 luglio al Cinema Beltrade di Milano, con la presenza del regista. La distribuzione, ancora oggi, è curata da I Wonder Pictures.
Un riconoscimento importante: la shortlist dei David di Donatello
Nonostante le enormi difficoltà distributive e la censura, Funeralopolis ha saputo guadagnarsi una posizione di rilievo anche a livello istituzionale. Nel 2019, infatti, il documentario è entrato nella prestigiosa shortlist dei David di Donatello come Miglior Documentario, trovandosi in compagnia di film di registi del calibro di Nanni Moretti, Silvio Soldini e Roberto Minervini. Un riconoscimento significativo, che testimonia come Funeralopolis sia riuscito a imporsi all’attenzione critica per la sua forza espressiva e per il coraggio del suo sguardo. Sebbene il film non sia stato premiato – e nonostante la sua natura di “outsider” rispetto alle opere più istituzionali – essere selezionato alla shortlist rappresenta la consacrazione di un lavoro capace di turbare, scuotere e porre domande nella tradizione dei grandi film scomodi.
Senza filtri: un ritratto estremo del margine
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Funeralopolis si inserisce con potenza nella tradizione poco frequentata del “cinema degli ultimi” italiano. Molto più che un documentario sulla droga, il film è uno sguardo radicale sull’abisso dell’emarginazione urbana: Redaelli segue i suoi protagonisti in ogni deriva notturna, tra le stazioni, i rave, gli appartamenti sventrati, sotto la luce al neon e la nebbia della periferia. Si ride, si bestemmia, si schernisce la morte, si adora satana, ci si punge. Ma la realtà viene sempre trattata per quello che è: cruda e priva di retorica. Qui, come in “Amore tossico” o “L’imperatore di Roma”, l’eroina è compagna e maledizione, e la telecamera non si tira mai indietro.
Il linguaggio delle ferite: tra bianco e nero, amicizia e abisso
La messa in scena crudele; eppure, vibrante di Funeralopolis passa anche attraverso una scelta stilistica netta. Girato in un bianco e nero dalle tinte dure e immersive, il film adotta un formato quasi soffocante, restituendo un’esperienza schiacciata sulle vite dei protagonisti. La macchina da presa di Redaelli è vicinissima, a tratti invadente, fortemente partecipante: zoom, primi piani, dettagli sulle ferite, sulle porte sfondate, sui corpi segnati dalla dipendenza. Tutto questo rende l’immersione totale, spesso sgradevole ed estremamente intensa, rafforzata da un approccio di osservazione in cui non vi sono né spiegazioni né abbellimenti. Funeralopolis non vuole rappresentare nulla che non sia la pura verità di due giovani vite ai margini: l’amicizia tra Vash e Felce si trasforma lentamente in un viaggio separato, emblematico della solitudine e della deriva interna a questo universo suburbano che si auto-divora.
Cinema-scandalo e censura: il film “invisibile”
Fin dalla sua uscita, Funeralopolis è stato oggetto di censura e ostracismo. Il divieto ai minori di 18 anni – rarità assoluta nel panorama italiano – ha influito profondamente sulla sua circolazione, tagliando fuori il pubblico giovane a cui il film in realtà è dedicato. La maggioranza delle sale ha rifiutato la programmazione; molte testate e festival hanno preferito non parlarne. Ma il passaparola e la sua “invisibilità” alimentata dalla censura ne hanno fatto un oggetto di culto tra chi cerca un cinema che non si tiri indietro davanti alla realtà, per quanto disturbante sia.
Funeralopolis e il pubblico: shock, dibattito e fascino sotterraneo
Il vero valore di Funeralopolis si misura anche nella reazione che suscita in chi lo guarda. Ogni proiezione pubblica si trasforma in un evento che non lascia nessuno indifferente: tra spettatori che si alzano indignati e altri che escono profondamente segnati, il documentario riesce in quello che molti film solo auspicano, ovvero stimolare un dibattito genuino – sui limiti della rappresentazione, sulla corresponsabilità tra soggetto e regista, sui destini degli esclusi e sull’etica dello sguardo. Funeralopolis si iscrive così in quel ristretto gruppo di opere che non solo raccontano una storia, ma rilanciano domande urgenti legate al presente e alla marginalità. Lontano dal voler essere semplice oggetto di scandalo, il film diventa miccia per un confronto sul valore del cinema come strumento di verità, dolore e, forse, consapevolezza collettiva.
Uno sguardo intimo e scomodo
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La forza di Funeralopolis risiede nella sua scelta estetica e morale di rimanere addosso ai protagonisti: Vash e Felce si raccontano senza pudore, offrendo allo spettatore momenti di intimità e vuoto, rabbia, speranza, delirio e autodistruzione. Qui non siamo davanti a una parabola morale o a un facile pietismo: Redaelli si confonde con loro, la sua voce si sente, il suo sguardo partecipa, la sua camera non si fa mai giudice. Al contrario di tanti docu-reality americani, Funeralopolis rifiuta la catarsi o la redenzione forzata: la realtà si mostra, non si aggiusta.
La normalità del non andare da nessuna parte
Il film si fa specchio di una generazione invisibile, senza futuro né aspirazioni, dove il desiderio di morte è uno sfondo normale quanto la ricerca di una dose o il tentativo, a volte goffo e disperato, di lasciare una traccia nella musica horror core o nei gesti quotidiani, tra armamenti da samurai e porte sfondate. “L’importante è avere la droga perché le persone fanno cagare. Meglio restare soli con la droga”, dice uno dei protagonisti. Funeralopolis svela a forza ciò che il cinema italiano troppo spesso censura: la vita ai margini nelle sue forme più totali e inafferrabili.
L’importanza di guardare senza filtri
Funeralopolis rimane un esempio raro di cinema necessario: disturbante, scomodo, scandaloso, eppure onesto come pochissimi altri titoli italiani contemporanei. Se ha avuto difficoltà a trovare spazio e voce, è proprio perché costringe chi guarda a sollevare lo sguardo, a non voltarsi davanti alla realtà più scomoda. Adesso che è finalmente disponibile in streaming e torna in sala a Milano, è il momento di recuperare un film che, come dice il regista, “è impossibile che ti lasci indifferente”.
Funeralopolis non ti chiede di giudicare ma di vedere, forse per la prima volta, quella parte di mondo che preferiremmo ignorare. E questa, in fondo, è la sua lezione più grande.
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